Chiara Castellani Stampa

Brani scelti

castellani01 Matagalpa, 10.3.1983
[...] La gente non è rassegnata alla sua miseria: ho letto una preghiera, su una “casa” della periferia di Managua, che diceva (più o meno): “Signore, dacci la serenità di accettare ciò che non è possibile cambiare; la forza di cambiare tutto ciò che si può modificare, la sapienza sufficiente a vedere la differenza”. Sopra la preghiera c'era un'immagine del S. Cuore. Sotto, il ritratto di Sandino
Non è una favola, una propaganda, questa di “Cristo e Sandino”: tutte le “case” nicaraguensi hanno immagini di Dio e della Madonna (la Nostra Signora di Guadalupe), spesso nella stessa parete di Sandino e Carlos Fonseca.
[...]


Terrabona, 16.3.1983
Carissima mamma (e carissimi tutti),
vi scrivo due righe veloci perché ho saputo che Katia parte per l'Italia in settimana: spero di riuscire a vederla in modo da affidare a lei la lettera, altrimenti la manderò per posta.
Non è molto che vi ho parlato per telefono, e quindi non ho molto da dirvi, se non che va tutto bene; ancora non sono entrata a pieno titolo all'ospedale di Matagalpa. Vi ho telefonato inutilmente, ma pensavo che fosse importante sentire un poco la mia voce, perché foste davvero tranquilli sulle mie attuali ottime condizioni (sono persino ingrassata nei due-tre giorni di soggiorno a Matagalpa: tutti i gruppi di volontari ci offrivano la “comida”!). La casa-MLAL di Matagalpa è un vero porto di mare: passano una decina di volontari ogni giorno, prendono il caffè, parlano con noi. E' ancora in corso di arredamento tuttavia ci si vive già bene: completa di doccia, srvizi e cucina a gas, e in seguito metteremo anche il telefono. Per ora vi ho chiamato dal posto pubblico, dove è più facile e dove interrompono loro la comunicazione dopo tre minuti...Ma state “tranquilli” che non vi telefonerò troppo spesso: scrivere è molto meno costoso e molto più tranquillo.
Da ieri sono tornata a Terrabona: finchè i documenti di residenza e di “trabajo” (lavoro) per i due anni non sono pronti, non posso lavorare a Matagalpa.
Qui invece frequento il “Centro de salud” di Domenico (quel ragazzo di Bologna di cui vi ho parlato, anche lui venuto qui come neolaureato, e oggi con due anni quasi di superesperienza), e oggi ho assistito (integralmente quasi e senza ostetrica, come ero abituata al Gemelli) al mio primo parto nicaraguese: primo figlio, un maschio di 3150 grammi, nessuna necessità di “tagli”, solo un piccolo singolo punto di sutura: se tutte partoriscono così, il mio lavoro non sarà certo difficile!
Resterò qui a Terrabona fino all'arrivo dei documenti, inoltre qui festeggiano S.Josè in modo particolarmente folcloristico, iniziando tre giorni prima (oggi appunto) con il “paseo” di vacche e cavalli dipinti. Già si sentono i “botti”, che qui chiamano “bombas”. Piero freme con la sua macchina fotografica, anche perché per la prima volta oggi c'è stata una “piovuta” tropicale (alcuni minuti di acqua a catinelle) e c'è il rischio che ne vengano altre a rovinare le pitture sul dorso delle bestie.
Vi saluto perché voglio riposare un po': sono due mattine che mi sveglio presto.
Ciao, un bacio a tutti
Chiara


castellani02Waslala, 27.7.1986
Carissimi tutti,
l'unica cosa che è sempre gradita è la cioccolata. Da una settimana sono tornata nel mio piccolo regno, e già mi sembra di non esserne mai partita. Siamo per il momento solo in due. Così, oltre che della chirurgia sono responsabile anche della pediatria: ho undici “ni ños” (ieri ne avevo quindici ma ne sono usciti quattro). Ho davanti a me il Nelson (testo di base di Pediatria), e ringrazio le ore passate in Italia a studiare la Neonatologia. Del resto, questo lavoro mi servirà anche in previsione del corso di Materno-Infantile a Londra, il mio vecchio non dimenticato sogno.
Ma qui il tempo di sognare manca: i ritmi di lavoro non sono disumani, però riempiono la vita, le ore volano. Sono già le 7 e mezzo di sera, e mi rimane ancora da scrivervi perché domani (lunedì) è previsto il viaggio settimanale dell'ambulanza.
Ho fotografato la mia stanza, illuminata dal lume a petrolio: le proporzioni sono un po' sfasate, perché l'obiettivo è un 35 mm. Sono orgogliosa della mia stanza, con il tavolino “a ponte lavatoio”, lo scaffale, le foto, l'armadio, il soffitto di stuoie: sono stati tutti costruiti o riadattati dalla sottoscritta, e devo dire che alla fine, con quel crocifisso salvadoregno accanto alla “Donna latinoamericana” dipinta da Francesca, è risultata bellissima. Ho ancora l'idea di verniciare la porta di rosso, ma lo farò a settembre: siamo in piena stagione delle piogge, e adesso non ne vale la pena. Vale più la pena di rimettere a posto il giardino: vorrei provare a piantare dell'insalata (tipo cicoria), delle melanzane e magari dei pomodori...Se vi capita, in una busta delle lettere, metteteci dei semi: iniziate con una perché se sono troppe finisco che non le utilizzo.
Attualmente in casa siamo solo in sette: infatti le studentesse stanno facendo gli esami a Matagalpa per la promozione finale. Sembra che qui ne torneranno solo tre delle tredici che conoscevo. Vivono con noi anche due bambini, i due figli della laboratorista che appare nella diapositiva di quella che credevate fosse la cucina...il più piccolo ha solo tre mesi, ma la notte non piange perché dorme accanto alla madre “chupa” (succhia) il petto tutto il tempo.
Vi manderò le diapositive “spiegate”, ma dovreste poi rimandarmele, visto che adesso ho un piccolo registratore e ho una mezza idea di fare degli audiovisivi: perché possiate godere insieme le foto e la mia voce, ma anche per poter smuovere un po' di gente affinché dia una mano al piccolo ospedale di Waslala...
La stagione delle piogge ha riacceso la malaria, la tubercolosi e la leishmaniasi (quest'ultima solo nelle zone rurali) mentre per fortuna sembra risolta l'epidemia di morbillo che mieteva vittime a maggio. Il viaggio in Italia mi ha stimolato la voglia di studiare e di “pubblicare”: serve al Nicaragua e all'Italia. Se trovate la streptomicina consegnatela ak MLAL: è un modo per metterli in mezzo. Va inviata a Benigno alla “Regional de salud”: lui sa che è per me. Non la dovete comprare voi. E' importante smuovere la gente proprio su questo tema: tutti sanno che in Italia la tubercolosi non esiste quasi più, ma ci sono posti al mondo dove la gente muore per una malattia, al giorno d'oggi, perfettamente curabile. E questo è importante che si sappia. Non tutti sanno invece cosa è la leishmaniasi: manderò le diapositive per spiegarlo. Il trattamento si produce in Francia e in Italia, si chiama Glucantime ed è della Farmitalia. Esiste già un gruppo sparuto (quello della Rosella a Milano, la ragazza che sono andata a trovare nella mia rapida corsa laggiù) che lo sta raccogliendo.
Poi cercate del dr. L., che aveva dato la disponibilità a cercare materiali in disuso. E' vicedirettore sanitario del Gemelli, quello al quale ho raccontato la bugia rispetto al vaccino antiepatite. Questa storia del materiale in disuso è una questione morale come la streptomicina: in Italia molte apparecchiature ancora nuove vengono buttate nei magazzini per comprarne di più sofisticate: largo alle macchine per la TAC e agli Ecografi, 110-115 milioni ciascuno. Chissà che non ci sia qualche buon apparecchio per schermografia che nessuno vuole più: per noi non è ne vitale, ne urgente, visto che ancora non abbiamo luce; ma è vitale per l'Italia e per la nostra spesa sanitaria folle rendersi conto che c'è chi farebbe tesoro di ciò che la si butta. Intermediari, anche qui, Benigno e il MLAL (che ha la lista che ho portato a giugno).
Mi servono un paio di collants di nilon bianchi, non costosi ma solidi, per lavorare la notte evitando le zanzare. Viceversa non mandatemi Autan: ho messo la zanzariera. Finalmente sono realmente contenta di ciò che faccio, e oggi più che mai è importante “mettervi in mezzo”, e fare di voi il mio ponte di comunicazione con l'Italia, perché questa esperienza meravigliosamente umana che sto vivendo sia patrimonio anche di altri
Chiara


Waslala, 9.9.1986
Carissimi tutti,
è molto-troppo – che non ricevo vostre notizie, e soprattutto non so se state ricevendo le mie.
Eppure sto scrivendo con frequenza, approfittando delle “brigadas” che stanno rientrando alla fine delle “vacanze impegnate”.
Sto lavorando con gusto: nell'ultima settimana abbiamo dovuto fare due cesarei, con buona evoluzione entrambi, anche se le condizioni non erano ideali: siamo sempre senza luce ne acqua , ma tempo due-tre giorni installeranno una piccola centralina elettrica.
Alle volte il lavoro è troppo e la sera sono stanca morta. Eppure sono felice qui, perché la mia vita ha un senso.
L'unico “clavo” (in realtà significa chiodo ma anche, come in questo caso, problema principale) è la solitudine a cui ho fatto “quasi” l'abitudine, e che forse sono io stessa che scelgo, perché mi ha permesso di conoscere più a fondo me stessa e di costruire un nuovo rapporto con gli altri, basato anche sul “bisogno”: per esempio mai come ora ho bisogno di voi, della vostra comprensione per ciò che sto facendo. A 20 anni pensavo che vivere fosse più facile, ma non sono pentita di nessuna delle scelte fatte fino ad ora. Nemmeno del matrimonio: penso che sia stato importante per capire tante altre donne rimaste sole. E non parlo solo delle vittime del “machismo” latinoamericano”: anzi, qui a Waslala , in ambiente contadino, tradizionale, i mariti sono insolitamente fedeli. Sto parlando dlle vedove di guerra, che scopro ben più numerose dei cadaveri che così spesso ci arrivano portati a braccia, dal fuoco che incendia la montagna sopra Zinca e il Naranjo: spesso ragazzi di Rivas, di Chinandega, di Managua, di Leün.
Sono sempre una piccola parte dell'olocausto che si sta pagando quotidianamente e che per la maggior parte rimane celato nel segreto di queste montagne: e stupisce quando nei discorsi ufficiali, tirando le somme , si scopre che il prezzo pagato per la propria sovranità sia così alto...Fino a quando?
Se veniste qui a Waslala capireste perché è così forte il mio desiderio di restare: non è, lo ripeto ancora (proprio per il dolore fisico che mi causò quella frase) un gusto infantile per il rischio ne una smania di protagonismo (mi mantengo silenziosa al mio posto). E' il desiderio di capire il perché: della morte, della miseria, della malattia, della guerra. E' la gioia quotidiana di scoprire che c'è ancora spazio per la speranza
Chiara


Matagalpa, 3.11.1986
[...] Si, sono di nuovo totalmente felice, quando con un massaggio cardiaco rianomo u bimbo con la broncopolmonite. Quando riesco a fermare una emorragia legando l'arteria che sanguina a fiotti intermittenti, scandendo quei secondi di tensione che non è lecito perdere.
E accanto a me, in questa trepida continua battaglia per la sopravvivenza, riconosco finalmente gente valida, con cui vale la pena condividere speranze e dubbi, ansie e soddisfazioni. Anche se sono tutti più giovanu di me, Reynaldo e Mauricio, Chicho e Yesenia, Vicente e Fredy...e tutti i ragazzi con cui divido la casa, la “tortilla”, la vita quotidiana, sono maturati in fretta alla scuola del bisogno.
E se l'amicizia che ho per loro è su un piano forse diverso rispetto a quella che mantengo con il “grupito” di Matagalpa (specialmente Gabri e Isabella, e Angela con Benigno e il bimbo) mi rendo conto che sto bene con loro.
Qualche giorno fa ho abbattuto la tenda che conservava la mia finzione di privacy (siamo in cinque a dormire nella stessa stanza, con i bimbi di Doña Cris): non ne sentivo più bisogno, anzi, mi dava fastidio.
Voglio che veniate a Waslala per capire perché voglio bene a Cristina e al piccolo Franklin, a Yesenia che forse sposerà Chicho perché a Waslala si sono innamorati l'uno dell'altra e di Waslala. A Fredy e isabel. Vorrei potervi raccontare di ciascuno di loro, di cento storie iniziate da una qualsiasi città di questo paese (Chicho di Chinandega, Mauricio di Leün, Yesenia di Ciudad Darìo) e che l'obbligo del servizio sociale in zona rurale (e, visto che si chiama così, in zona di guerra) ha fatto confluire in questo minuscolo fazzoletto di case di paglia e di legno.
Vi aspetto perciò. Quando? Io farei una proposta:sicuramente i genitori di Marco verranno a conoscere il bimbo in aprile-maggio. Fate il viaggio con loro. Una volta conosciuta Waslala e magari anche S.Juan del Sur (l'altro mio grande amore in Nicaragua), vi accompagnerei in Guatemala sfruttando così quei venti giorni di ferie che mi spettano. Guatemala e Italia insieme no: non lo ritengo possibile, per serietà professionale. Finchè non decido di considerareconclusa questa esperienza, io sono il “Chirurgo-Ginecologo” di Waslala: non ci sono supplenti disponibili, e non posso e non voglio lasciar scoperto il posto per un tempo prolungato.
castellani03Reynaldo e Mauricio non lo farebbero mai: Reynaldo è stato operato a settembre di un tumore del retrofaringe: un'operazione rischiosa e lunga, e non senza conseguenze. Ma tre settimane dopo era già al suo posto, perché l'ospedale non può fare a meno del suo direttore...Anche se poi, a guardargli il documento di identità, risulta che si è laureato nel 1985 e che ha solo 24 anni.
Vi ho già detto di come la loro precoce maturità, mi spaventa e mi fa un poco vergognare dei miei primi 26 anni vissuti nella bambagia.
E anche adesso, che ricevo il loro stesso stipendio, che mangio lo stesso riso con fagioli, che dormo nella stessa casetta di legno, che studio con lo stesso “machün” a petrolio, continuo in fondo ad essere una privilegiata. Perché l'altro giorno Mauricio è andato con l'ambulanza fino al Naranjo , per fare la supervisione del programma TBC , e al ritorno la camionetta si è arenata nel Rìò Iyas, mentre scendeva l'oscurità e la paura degli agguati notturni sui suoi occupanti. Mentre io non voglio (ve l'ho promesso), non posso (anche il Frente me l'ha proibito) e non sono tenuta a mettere il naso fuori del recinto dell'ospedale per svolgere il mio lavoro.
Sono privilegiata perché un giorno tornerò in Italia, magari farò il famoso corso di Londra, e potrò comunque assicurare ai miei figli un futuro di pace.
Io ho potuto, con un pizzico di fanatismo, radicalizzare la mia scelta di povertà.
Loro la povertà non l'hanno scelta: sono nati poveri, i miei campesinos di Waslala, e la poca ricchezza che riescono strappare a questa terra, la vedono rapidamente bruciata dall'inflazione e dalla guerra.
A me manca il latte, e quando vado a Matagalpa ne bevo due litri al giorno. Loro alle volte mangiano per giorni e giorni solo banane.
E se esiste un Dio, come può non condannare chi, in uno spazioso ufficio con aria condizionata a Washington o a Miami, decide in questi giorni freddamente come destinare cento milioni di dollari per continuare a bruciare le loro capanne di legno e paglia, i loro raccolti di mais e fagioli, le loro ostinate speranze di pace?
Non vi chiedo di essere “sandinisti” (neanche io lo sono), non vi chiedo di condividere la politica del governo (anch'io penso che stia facendo errori, ma mai in mala fede), ma questi cento milioni di dollari destinati al genocidio della “mia gente” devono fare anche a voi lo stesso schifo che fanno a me.
Quando la richiesta è passata al Congresso ero in Italia, e la rabbia è stata in parte attenuata dalla distanza, come se i morti fossero una finzione una fredda cifra (cento milioni di dollari, quante migliaia di morti fanno? Che prezzo ha in dollari la vita di un campesinos di Waslala? )
Ho dovuto ritornare tra queste montagne, rivedere i corpi martoriati dalle mine, riconoscere a stento i duri tratti meticci dei miei campesinos nei volti sfigurati dai “charneles” (gli innumerevoli frammenti in cui esplode una granata).
Ho dovuto amputare un piede a un ragazzo di 18 anni e una mano a un ragazzo di 14 per recuperare finalmente la dimensione reale di ciò che significa decretare freddamente, con un voto “democratico”, il genocidio di un popolo. Per riuscire finalmente a capire.
A Managua i cento milioni significheranno solo un po' di fame in più, un ulteriore acuirsi della crisi economica e della tensione sociale.
Qui si convertiranno in corpi straziati di “campeches” (contadini): di 14 o di 50 anni, in grigioverde o in abiti civili
Chiara


Waslala, 18.8.1987
Carissimi tutti,
è da sedici mesi che sono a Waslala. Negli ultimi otto ho avuto contatti con voi solo nella “vacanza” di marzo. Negli ultimi quattro, per problemi personali e di lavoro, la mia vecchia Olivetti ha lungamente taciuto, ma anche le lettere “dal resto del mondo” (il “mio mondo” oggi è incredibilmente relegato a questo minuscolo fazzoletto di case di legno) si sono fatte “desiderare”: ed è un desiderio intenso quando si è soli, comincio ad avere “paura”: paura di non essere capita, paura di essere “dimenticata” fra queste montagne, paura di restare sola anche nell'appoggio ideologico a questa mia scelta molto “radicale” ma di cui non mi sono pentita. Paura essenzialmente della “solitudine”. Oggi rispondi solo a me stessa, al MINSA e al Padreterno.
C'è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui mi illusi di trasformare le mie lettere in una sorta di “reportage” giornalistico della “zona di guerra”, dove realmente “aquì no se rinde nadie” (qui non si arrende nessuno)...”Mentira!” (bugia). Lo stile giornalistico non mi si addice, ma soprattutto sono del tutto incapace di realizzare una “analisi” di tipo storico-politico di ciò che sto vivendo a un livello emotivo e passionale...e troppo in prima persona per poterlo razionalizzare! Se cerco di esprimere quello che sto vivendo, finisco per farlo in termini di “Brutto” e “Bello”. Sono brutte le ferite per arma da fuoco, i volti sfigurati dai “charneles”, le gambe spappolate dalle mine. La guerra è brutta... Non mi piace la guerra, la odio. Eppure sono qui, e da qui non mi muovo, e “me gusta” lavorare qui, e non me ne andrei per tutto l'oro del mondo... Perché è bello che ci si vaccini in zona di guerra, che si preparino le “parteras” e i “brigadistas de salud” delle comunità più isolate e “jodidas” (sfottute) dalla contra e dall'endemia, che ci sia un'aiutante infermiera in ogni “asientamento” campesino, che ci sia gente che rischia ogni giorno la sua pelle per “llevar salud hasta el ultimo rincün” (portare i servizi medici fino al più sperduto angolo), e che da Brescia arrivi ogni due-tre mesi un carico di solidarietà solo per Waslala... E' bello, è entusiasmante che ci sia un popolo che continui a vivere e a portare avanti un processo di “cambio radicale” di una realtà martoriata da una pesantissima eredità di sfruttamento e di isolamento, come se la guerra “non esistesse”.
Forse se sto qui è perché condivido questa sfida ai “signori della guerra” come stanno facendo proprio i più poveri: se volete potete continuare a seminare le vostre mine, ad armare le truppe dell'aggressione, ad ammazzare senza ragione. Noi non moriremo: siamo cento volte più vivi di voi, in quello che stiamo costruendo ogni giorno, nonostante tutto... Nelle baracche di “techo y plastico” che rapidamente si trasformano in nuove case, di cemento e tavole. Nei figli che continuano a nascere, senza mai perdere la speranza... Perché nessuno può uccidere la “speranza dei poveri”.


Waslala, 31.5.1988
Carissimi tutti,
a molti mesi di distanza nuovamente una lettera comune a “tutti quelli che mi vogliono bene”, come scrissi anteriormente. A tutti quelli “che sono enormemente preoccupati per me e per la mia salute mentale” mi viene voglia di scrivere invitandoli a leggere fra le righe della scarsissima corrispondenza degli ultimi cinque mesi (forse, purtroppo, si legge di più al silenzio).
Per piacere, non preoccupatevi più per me, io sto bene, o starei meglio e mi sentirei totalmente serena nel mio lavoro se sentissi anche voi sereni. In più di cinque mesi, ho ricevuto in tutto due lettere e non hanno certo contribuito a dissimulare l'angoscia e la solitudine che mi danno i prolungati silenzi.
Nelle ultime quattro settimane i miei sentimenti hanno costantemente oscillato fra l'incapacità a ritrovare “il senso” del mio essere presente qui (adesso che ho aperto gli occhi sulla sofferenza che sto causando: è che voglio troppo bene a tutti voi, per non farmi carico di questa sofferenza), e la rabbia per un “senso perduto” non so più come, non so perché, quasi mi chiedo se abbia avuto un senso sei anni di Nicaragua, tre anni di “zona di guerra”, farmi testimone oculare o forse solo una vittima in più di una sporca storia di interessi politici che ancora non sono riuscita a penetrare, forse perché nel mettermi troppo “dentro” la situazione ho perduto di vista il significato globale...
E perdendo il significato globale di una situazione obiettivamente più grande di me, ho perduto anche il “senso di una presenza”. Alle volte mi osservo allo specchio e mi vedo ormai vecchia, rimpiango gli anni perduti e il cui prezzo finale mi sembra oggi l'immensa solitudine in cui mi trovo a 32 anni. E mi sento stanca di “combattere” una battaglia di cui non vedo più gli orizzonti di pace...sono i momenti in cui temo che no, non sia valsa la pena di metter in gioco gli anni migliori della mia vita per un'utopia di pace che forse è irrealizzabile. In questi momenti mi chiedo se forse non ho sbagliato tutto.
Tre anni fa, decidendo di venire a Waslala ho scommesso sulla pace e sulla capacità di “andare avanti da sola”, non per scelta ma per necessità, e sicuramente sono stata presuntuosa, perché se non c'è nessuno che di tanto in tanto ti pone un braccio attorno alle spalle e ti dice “coraggio”, chiunque diventa “isterico”...Io per prima, e perché dovrei negare che due, tre volte ho dato fuori da matta? Recentemente no, per tranquillità vostra, però mi sto rendendo conto ogni giorno di più che se non mi giunge quella “spinta affettiva” che da sempre mi sosteneva, non solo per via epistolare, dall'Italia, anche la mia sorgente si sta seccando, e mi sento vuota. Sono i giorni in cui sento più forte il desiderio di piantare tutto e tornarmene “a casetta” già adesso, mollando tutto a piedi per aria...e ammettendo con me stessa che ho perso la scommessa.
castellani04Ma non la voglio perdere:
è troppo quello che ho puntato sopra Waslala per essere disposta a dichiararmi sconfitta, a rinunciare a un “progetto” che prima di essere proposto come “progetto MLAL” è sato progetto di “esistenza”: nel senso che per tre anni ho esistito solo in funzione di Waslala. Waslala è tutt'ora un “microcosmo emblematico” della lotta indeclinabile di un popolo per la sua autonomia.
Waslala è stata, nei due mesi che hanno fatto seguito agli “accordi di pace” di Sapoà, emblema anche di “un sogno” di pace che sembra oggi voler uscire dall'utopia. Dopo l'ottimismo che ha seguito Esquipulas, miseramente crollato qui insieme al ponte di Yaoska, non voglio lasciarmi nuovamente trascinare da troppo facili entusiasmi, credendo che la pace sia una conquista raggiungibile in poco tempo...I destini dei popoli si giocano purtroppo in altre sedi! Ma è stata ugualmente meravigliosa questa “prova generale” di quello che si potrebbe progettare, costruire, inventare qui se la guerra non esistesse.
In aprile, approfittando di una tranquillità che ancora suonava insolita qui dove la guerra è ormai “un'abitudine”, abbiamo riunito tutti i “brigadistas de salud” dell'area, e si è iniziato a parlare con loro in termini di un futuro che possa prescindere dalla guerra di aggressione. Si è nuovamente “scommesso” sulla pace, presupposto irrinunciabile per uno sviluppo integrale della zona. La denutrizione, l'endemia malarica e tubercolare, le esplosioni epidemiche, tutte prevenibili con le vaccinazioni, specialmente nella popolazione infantile (quante vite miete attualmente la pertosse e quanti morti costò l'epidemia di morbillo del 1986!). Tutto questo è effetto indiretto della guerra. E ragionando in un'ottica di pace, Sapoà diventa una sfida enorme per tutti noi.
Nel mese di maggio abbiamo avuto più parti che nei tre mesi precedenti; la sala di chirurgia, di cui sono responsabile da quando sono arrivata paradossalmente come “il chirurgo del Fidel Ventura” (come scherzosamente mi chiamava una grande amico che non è più qui), anziché piena di feriti, come ancora a febbraio e marzo (e fra i feriti, moltissimi i civili e molti bambini), era piena di gravide e di puerpere. Solo negli ultimi giorni in seguito a una imboscata a un veicolo civile a fine maggio, in aperta violazione unilaterale degli accordi, abbiamo dovuto nuovamente affrontare il triste spettacolo dei corpi martoriati dalle granate, dell' odore acre insopportabile della carne bruciata, delle secrezioni fetide di cui si ricopre la ferita per arma da fuoco dopo due giorni di cammino nella montagna in condizioni igieniche totalmente inadeguate...
In aprile e in maggio, volti sconosciuti con marcati tratti indigeni sono apparsi nel corridoio del Centro e nei consultori. Venivano da comunità finora note solo sulla mappa: Cano Sucio, Dipina; Capote Kum, Ocoye Tuma, portando con se storie antiche e recenti di morte e di resurrezione...”vengo a buscar rimedio por una enfermedad que padezco desde tempo, y que ya matò a mi hija y a mi hermano (sto cercando una cura per una malattia di cui soffro da tempo, che ha già ucciso mia figlia e mio fratello). Tradotto in termini medici, ancora come sempre malaria e tubercolosi.
Ho iniziato la presente il 31 di maggio, ancora scossa per l'agguato al veicolo civile di cui vi parlavo; chiudo il 9 giugno. Oggi ho ricevuto i “delegados della palabras” di Arena Blan e del Chile (comunità fuori... della grazia di Dio!), con i thermos quasi vuoti: la gente ha risposto con responsabilità alla “sfida”: “Anche se c'è rischio che ci iniettino...il comunismo, non vogliamo che i bambini continuino a morire “ahogados” (soffocati) dalle secrezioni della pertosse”.
Ho ripreso a sperare: oggi mi sento più serena...E credo che anche dall'Italia mi arriverà presto un messaggio che finalmente suoni di incoraggiamento, per andare avanti
Un bacio a tutti. Vi voglio bene
Chiara

Chiara Castellani
"Lettere da Waslala"
epistolario 1983-1989

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