Storia di Pieve Santo Stefano Stampa

Dall'età della pietra ai giorni nostri
di Andrea Franceschetti

La Città del Diario occupa una superficie di 155 chilometri quadrati e i suoi abitanti superano le tremila unità. Prossima all'estremità orientale della provincia di Arezzo e, quindi, della regione Toscana, posta in un bacino naturale a 433 metri di altitudine sul livello del mare, è la prima conca disegnata dal fiume Tevere, che nasce pochi chilometri più a nord, a quota 1268 metri, nel versante romagnolo del monte Fumaiolo. Situata nel centro geografico della Valle Tiberina, il solo comune di Sansepolcro la separa a sud dall'Umbria, le sole circoscrizioni di Badia Tedalda e Sestino la separano ad est dalle Marche e il solo «giogo di che Tever si diserra» (Dante, Inferno, XXVII, 30) la separa a nord dall'Emilia Romagna.

Tracce di un protostorico insediamento, portate alla luce in località La Consuma, risalgono al Neolitico. Un altro insediamento, databile all'Età del Bronzo, è stato rinvenuto in località Poggiolo di Madonnuccia. Sito di interesse è anche quello di epoca etrusca scoperto a Tizzano. Di epoca romana rimangono ruderi dei ponti che traversavano il Tevere; si scorgono ancora al Pozzale, a Formole e a Sigliano: qui ne era stato costruito uno di cinque arcate che doveva sostenere il traffico della Ariminensis, la bretella che univa Arezzo con Rimini valicando l'Appennino al Passo di Viamaggio (< Via maior). Tutta la zona era un centro di raccolta, transito e invio del legname. I boschi rifornivano Roma del necessario per la costruzione della flotta, dei templi e delle abitazioni. I tronchi cavalcavano il corso del Tevere in fluitazione, sistema escogitato per far diminuire costi e difficoltà di trasporto. Nel 1636, durante le operazioni di restauro del tempietto della Madonna del Colledestro, fu rinvenuta un'iscrizione di epoca romana con su riportata la commissione di Publio Sulpicio e di sua moglie Cellina, che avevano fatto erigere un tempio al dio Tevere e alle Ninfe. È il nome Suppetia a spuntare dal primo manoscritto, un rogito del 723 in cui si legge che Tedaldo, signore di Tiphernum (l'odierna Città di Castello), Suppetia e della Massa Trabaria, dona ai monaci benedettini un monastero a Cerbarolum (oggi Cerbaiolo). Alcuni storici hanno ipotizzato la derivazione Suppetia < suppeditare, verbo latino che transitivamente significa 'inviare, fornire' (in questo caso riferito al legname fluitante verso Roma) e intransitivamente vale per 'essere in abbondanza' (sempre alludendo alla ricchezza dei boschi). Ma in documenti più tardi il toponimo si corrompe in Sulpitia, e non si è certi se per mera variazione formale o perché derivante proprio da quel Publio Sulpicio menzionato sulla lapide ritrovata nella chiesetta del Colledestro.
Al tempo della riorganizzazione amministrativa dell'Italia, operata da Ottaviano Augusto, il territorio fu inglobato nel Municipium di Arezzo. Sotto Liutprando i Longobardi scacciano i Bizantini dalla Valtiberina ed è un Longobardo (celebrato maestro delle scholae palatinae di Carlo Magno) a fare esplicita menzione di Pieve per la seconda volta: Paolo Diacono, tra le pagine della Historia Langobardorum, descrive i confini della provincia bizantina delle Alpes Appenninae e attesta che in una porzione di essa si trova l'oppidum Veronae. L'Alta Valtiberina si chiamava allora Massa Verona: la Suppetia romana e bizantina era dunque diventata Verona coi Longobardi. I primi dinasti del territorio compaiono in un privilegio di Ottone I, dato in Ostia il 7 dicembre 967: al nobile e fedele Goffredo d'Ildebrando viene confermato il possesso anche della Massa Verona, compresa tra la foresta di Caprile, il Montefeltro, Bagno di Romagna, il Monte della Verna e il Monte Calvano. Capoluogo della Massa è confermato l'oppidum Veronae. Il 1216 è l'anno del passaggio di San Francesco, diretto, per la terza volta, alla Verna. La santità dell'uomo è già nota ai Pievani che gli offrono in dono il monastero di Cerbaiolo. Francesco accetta e, dal 1218, l'antico cenobio appartiene ai Frati Minori (citando un adagio pievano, “chi ha visto la Verna senza vedere Cerbaiolo, ha visto la mamma senza vedere il figliolo”). Nel novembre 1220 spunta anche il nome di Federico II, Imperatore e Re di Sicilia, che prende Pieve sotto la sua sovrana protezione con l'intento di migliorarne lo stato della chiesa. Il 29 ottobre 1264, a Bibbiena, i rappresentanti pievani siglano un accordo col vescovo di Arezzo, che, in cambio del pieno dominio sul paese, s'impegna a costruire un castello in quattro mesi. Due anni più tardi il medesimo presule, riconosciute giuste le ragioni del Comune di Arezzo, cede i suoi diritti alla città. L'11 giugno 1289, la sconfitta ghibellino-aretina in quel di Campaldino getta il Comune di Arezzo e i suoi territori nel caos. È il Vescovo e Capitano generale Guido Tarlati, forte dell'aiuto del fratello Pier Saccone, a riconquistare, nel 1318, Pieve, che diviene capoluogo del Viscontado della Val di Verona, con un Visconte che governa in nome di Pier Saccone. Il Viscontado dipende dal Giudice Civile di Porta Crucifera.

Risale al 1385 la sottomissione dei Comuni della Val Verona alla Repubblica di Firenze. Il nuovo assetto amministrativo promuove Pieve capoluogo della Podesteria. Sotto Lorenzo il Magnifico si arricchisce di opere dei Della Robbia, di Piero della Francesca e del Ghirlandaio, ma gran parte di questo inestimabile patrimonio rimarrà sommerso nell'alluvione del 1855. Nel 1511 viene ultimata la Fonte del Tribunale, addossata alla facciata del Palazzo Pretorio e impreziosita da una robbiana in terracotta invetriata raffigurante l'episodio evangelico della Samaritana al pozzo. Nel 1527, l'esercito dell'Imperatore Carlo V, forte di trentamila uomini, in massima parte Lanzichenecchi, è diretto alla volta di Roma. Dopo aver messo a ferro e a fuoco l'Italia del nord, le truppe giungono alle porte di Pieve e cingono d'assedio le sue mura. La popolazione corre in aiuto del Vicario, Antonio Castellani, e dei pochi soldati del presidio, ma le forze risultano comunque enormemente disuguali: appena mille contro trentamila. Eppure i Pievani resistono, per cinque giorni, a tre furibondi assalti. I Lanzi tolgono le tende e proseguono verso Roma (che, a differenza di Pieve, cade nell'arco di una sola giornata). 
Se nel 1545 Pieve viene elevata al grado di capoluogo di Vicariato, nel 1569 il Vescovo di Sansepolcro, Monsignor Niccolò Tornabuoni, istituisce il Capitolo dell'Insigne Collegiata, costituito da sei Canonici che hanno il compito di coadiuvare l'Arciprete nella cura delle anime e negli atti di culto, e la chiesa assurge al grado di secondo tempio della Diocesi. Rodolfo Cupers di Guglielmo, arciprete della terra di Pieve Santo Stefano, approvato per tale dal Granduca Cosimo I dei Medici al tempo del Pontefice di Roma Giulio III e del Vescovo di Sansepolcro Niccolò Tornabuoni, «appena si manifestarono, nel mese di luglio 1589, li copiosi prodigi di Maria Santissima dei Lumi, colla sua critica e saviezza ne raccolse e verificò venticinque dei più cospicui. Il suo processetto delle verificazioni principiò il dì 3 agosto e terminò nel 5 ottobre successivo. La comunità ebbe motivo di rappresentare tali prodigi al Granduca Ferdinando I, che si degnò spedire alla Pieve Santo Stefano il signor Pietro Cacini ingegnere dell'uffizio dei Capitani di Parte di Firenze per far la pianta del magnifico tempio che l'implorava di erigere alla Gran Madre di Dio, il quale ebbe principio il primo di maggio del 1590». Il «magnifico tempio», che ancora oggi si staglia nel panorama ammirabile dal mezzogiorno di Pieve, sorse sul luogo in cui la miracolosa immagine, affrescata da mano ignota nella seconda metà del XV secolo, si affacciava da un'edicola. La chiesa della Madonna Santissima dei Lumi è a croce greca e la sua sontuosa cupola ricoperta di piombo ha richiamato, da sempre, l'attenzione di architetti ed ingegneri di mezzo mondo. Nel 1591, il granduca Ferdinando I decreta che i Vicari di Pieve restino in carica per un anno e non per soli sei mesi; inoltre, i funzionari saranno, per l'avvenire, nominati direttamente dal Granduca. Nel 1631, il popolo di Pieve Santo Stefano, falcidiato anch'esso dalle ventate pestilenziali che flagellavano l'Europa, decide di far pubblico e solenne voto, per mano del vicario Piero Strozzi, di celebrare ogni anno la festa della Beatissima Vergine il giorno dell'8 settembre «con messe e processioni, acciò che Lei interceda per la gratia appresso alla Maestà di Dio e per Sua misericordia si piaccia liberarla dal flagello del contagio».

Nel settembre dell'anno successivo la comunità ratifica il voto; nel luglio del 1656 «fu proposto una devotione d'andare processionalmente tutto il popolo il giorno della vigilia della Natività della Madonna Santissima alla Madonna dei Lumi da durare anni dieci». Sono trascorsi quattro secoli, ma i Pievani, con immutato slancio e intatta devozione, il 7 settembre continuano a scendere in processione. Nel 1810 accade che si decida di costruire un pubblico Teatro, attiguo al Palazzo Pretorio, e che Napoleone faccia fare le valigie ai Minori Osservanti della Madonna dei Lumi e alle Clarisse Francescane. Col Granduca Leopoldo II Asburgo Lorena e la riforma del Catasto del 1833 il territorio comunale viene definitivamente rinchiuso tra gli odierni confini. Risale al 1850 la stesura della Compendiosa Descrizione Istorica della Terra di Pieve Santo Stefano, ad opera del canonico Giovanni Sacchi: anche una recente e fortunata operazione editoriale, promossa dal locale Centro Studi Storici e Ricerche Archeologiche, l'ha confermata come la più preziosa fonte della storia locale. All'epoca del Sacchi il commercio vive una stagione fiorente, tant'è vero che a Pieve si tengono nove fiere all'anno, oltre i mercati settimanali. Il Comune mantiene sedici impiegati, tre funzionari e cinque gendarmi a salvaguardia del quieto vivere della cittadinanza. La segnalazione della presenza di due farmacie, tre caffè, quattro tabaccherie e numerose drogherie dà chiara sensazione di un paese florido e ricco. Ma il 14 febbraio 1855, in seguito a un mese di precipitazioni incessanti, una frana si stacca dal colle di Belmonte e scivola fino ad ostruire il corso del Tevere, a sud del paese. La diga naturale fa scomparire, nello spazio di un giorno, Pieve Santo Stefano sotto le acque. Il Granduca Leopoldo II giunge a fare un sopralluogo e naviga incredulo sul paese (la parete esterna, volta a mezzogiorno, del Santuario della Madonna dei Lumi, riporta una lastra in marmo indicante l'impressionante livello raggiunto dalle acque). Da tutta la regione, anche grazie alla sua intercessione, giungono aiuti. Ma le perdite economiche e i danni al patrimonio storico-artistico sono incalcolabili.
La riorganizzazione postunitaria annette Pieve alla Provincia di Arezzo. Nel 1908 diviene cittadino pievano Giovanni Papini, che sposa una ragazza di Bulciano. Questo luogo incanta lo scrittore, tanto che decide di costruirvi una villa. Qui Papini offre ospitalità in più occasioni a Prezzolini, Soffici, Ungaretti. Tra il 24 maggio 1915 e il 4 novembre 1918, sono chiamati alle armi oltre cinquecento giovani. I morti ammonteranno a centoquarantuno. Alle vittime viene dedicato un giardino, quel “Parco delle Rimembranze” dove per ogni caduto viene piantato un albero. Nel 1924 viene eretto, nel Santuario della Madonna dei Lumi, l'Altare dei Caduti, che viene ornato con una tavola del XV secolo, opera di fra Bartolomeo da S. Marco, inviata dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, e un anno più tardi viene collocato, in Piazza Santo Stefano, il Monumento ai Caduti.

Il Censimento Generale della Popolazione del Regno e delle Colonie, dell'aprile 1936, fa registrare il dato più alto di abitanti che il Comune di Pieve ha avuto nella sua storia: 5753. Dal 10 giugno 1940 all'8 settembre 1943 vestono la divisa più di seicento soldati pievani e di loro quarantasette non faranno ritorno. Nel dicembre 1943 viene inviato un Commissario Prefettizio, in sostituzione del Podestà, come rappresentante della Repubblica Sociale, mentre, sopra Valsavignone, l'Organizzazione Todt inizia a tracciare la Linea Gotica. Nei primi giorni dell'agosto 1944, i Tedeschi ordinano lo sfollamento degli abitanti dal territorio comunale. A fine mese minano tutti gli edifici e li fanno saltare in aria. Si salvano solo le chiese e il comune. Ai primi profughi ritornati non bastano le lacrime. Il paese riprende ufficialmente vita con l'insediamento, il 14 settembre, del Consiglio Comunale e l'elezione di Filippo Perugini alla carica di Sindaco. La rimozione delle macerie deve fare i conti con l'abbattimento del 99% degli edifici e la minacciosa e spesso fatale presenza di mine su 1200 ettari di territorio. I liberatori inglesi arrivano a suggerire la ricostruzione del paese in zona pianeggiante più a sud rispetto al sito storico, ma il popolo oppone un netto rifiuto all'idea di abbandonare la storica Sulpizia. Il paese risorge dov'era, ma non com'era. L'antica planimetria è rispettata, ma lo stile rinascimentale dei palazzi si perde nelle linee dell'architettura contemporanea. Sale in questi anni, nel firmamento della politica italiana ed internazionale, la stella del pievano Amintore Fanfani. Nato nel 1908, diventa, giovanissimo, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Deputato alla Costituente e Ministro del Lavoro. Il 13 aprile 1957 il Gonfalone di Pieve Santo Stefano viene insignito della Croce di Guerra al Valor Militare: è l'unico Comune a vantarla di tutto il territorio aretino. Nel 1984, nasce, da un'idea del giornalista e scrittore Saverio Tutino, l'Archivio Diaristico Nazionale, che raccoglie migliaia fra diari, memorie ed epistolari: Pieve diventa, per l'Italia e l'Europa, la Città del Diario. Il paese, in termini di superficie abitativa, durante il secondo dopoguerra triplica. Piazza Re Umberto I, ribattezzata Piazza della Repubblica dopo il referendum post bellico, è stata dedicata alla memoria di Amintore Fanfani, un anno esatto dopo la sua morte, avvenuta il 20 novembre 1999. Chissà quando Pieve partorirà un altro grande statista, capace di assurgere fino agli scranni di Ministro della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente del Consiglio e Presidente dell'ONU. Un nuovo grande figlio di una Pieve in Italia.


Bibliografia storica essenziale
AA.VV., Atlante dei Siti Archeologici della Toscana, Roma, Litostampa Ottavia, 1992
AGNOLETTI, E., I Vescovi di Sansepolcro, Sansepolcro (AR), Tipografia Boncompagni, 1975
AGNOLETTI, E., La Collegiata di Pieve S. Stefano, Sansepolcro (AR), Tipografia Boncompagni, 1968
AGNOLETTI, E. - CESTELLI, F. - MELANI, A., La Madonna dei Lumi di Pieve S. Stefano, Cerbara di Città di Castello (PG), A. C. Grafiche, 1979
BARFUCCI, M. B., Il Monte della Verna, Firenze, Giunti, 1993
BARTOLOMEI, G., Sigliano, Siena, Cantagalli, 1985
DI PIETRO, G. - FANELLI, G., La Valle Tiberina Toscana, Firenze, Arti Grafiche Alinari Baglioni, 1973
REPETTI, E., Dizionario Corografico della Toscana, Firenze, Stabilimento Grafico Giunti - Marzocco, 1977
SACCHI, G., Compendiosa Descrizione Istorica della Terra di Pieve S. Stefano (a cura del Centro Studi Storici e Ricerche Archeologiche di Pieve S. Stefano), Città di Castello (PG), Tipografia Tappini, 2000

Pieve e i pievani
storia di un toponimo e di un etnico
I toponimi che traggono spunto dal sostantivo latino PLÇBEM (> 'Pieve') sono in Italia molto numerosi e contraddistinti dai più svariati etnici propri. Seguendo le indicazioni del Dizionario degli etnici e dei toponimi italiani, di Cappello, T.-Tagliavini (Patron, Bologna, 1981, pp. 410-412), ci si rende conto di come ogni 'Pieve' d'Italia abbia attribuito, in maniera del tutto indipendente dalle altre, un etnico specifico ai propri abitanti. Se coloro che vivono a Pieve Ligure, in provincia di Genova, oppure a Pieve San Giacomo, in provincia di Cremona, o, ancora, a Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, si chiamano 'Pievesi', nulla osta agli indigeni di Pieve Fosciana, in provincia di Lucca, di chiamarsi 'Pievarini'. Se 'Pievanini' sono detti gli abitanti di Pieve San Vincenzo, in provincia di Reggio Emilia, l'etnico che sta a indicare quelli di Pieve Torina, in provincia di Massa Carrara, è, invece, 'Pievetorinesi'. Toponimi diversi (Pieve Ligure-Pieve San Giacomo-Pieve Porto Morone) possono approdare al medesimo etnico (Pievesi), ma può verificarsi anche il fenomeno inverso, ovvero il caso di toponimi identici approdati a differenti etnici: l'Archivio diaristico nazionale è a Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo e non a Pieve Santo Stefano in provincia di Lucca; il Premio Pieve è nato su iniziativa di 'Pievani' e non di 'Pievesi'. L'etnico concernente la Pieve Città del Diario è, dunque, 'Pievano', che sfrutta «uno dei suffissi» [lat. -ÂNUS > it. '-ano'] più diffusi in tutta la penisola per formare nomi di abitanti. L'altro etnico riportato dal Cappello-Tagliavini, sempre a proposito di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo, ossia 'Pievigiano' (< lat. -*ENSIÂNUS < -ENSIS + -ÂNUS), è del tutto inusitato tra gli autoctoni. blanck space

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