Il Premio LiberEtà, promosso dalla rivista mensile dello Spi Cgil in collaborazione con la Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, si propone di valorizzare la raccolta di autobiografie, diari, memorie, epistolari e ogni altra forma di testimonianza sulle vite di donne e uomini di ieri e di oggi, che mettano in evidenza l'impegno per il riscatto e il progresso del mondo del lavoro.
Il Premio, prevede la pubblicazione in volume dell'autobiografia o diario primo classificato. La cerimonia di premiazione si è svolta in varie città: nel 1998 a Mantova, l'anno successivo a Lecce, poi a Senigallia, Ferrara, Firenze, Bormio, Siracusa, Arezzo, Roma, Palermo, Cattolica. Resoconti delle varie edizioni possono essere reperiti nella rivista Liberetà e nei siti di LiberEtà e Spi-Cgil. Tutto il materiale pervenuto per il Premio Liberetà viene poi conservato e schedato presso la Fondazione Archivio diaristico.
I vincitori del Premio LiberEtà
2014
2013
2011 2010
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Sandra Vegni
Andrea Luschi
Franco Monaco Anna Gironi
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2009 |
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Giovanni Mandato |
2008 |
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Cecilia Tratzi
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2007 |
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Antonio Specchio |
2006 |
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Angelo Dall'Occo
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2005 |
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Carla Maria Nironi |
2004 |
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Eliseo Ferrari
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2003 |
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Enrichetta Lefevre
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2002 |
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Bruno Bartoli
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2002 |
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Natalina Sozzi, menzione speciale |
2001 |
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Francesco Ibba |
2000 |
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Eugenia Biondi |
1999 |
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Francesco Costantino |
1998 |
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Bruno Sacerdoti |
I testi vincitori pubblicati in vendita anche nel negozio online dell'Archivio
Bruno Sacerdoti ...E mi sono divertito 1924-1987 autobiografia
Uno dei più noti sindacalisti della Cgil, racconta la sua vita, dall'esilio in Svizzera alla resistenza, e tutto il suo lavoro nelle varie branche dell'organizzazione e nella federazione sindacale mondiale, per cui vive a Praga e viaggia in molti paesi. Terminerà la carriera, curando la formazione sindacale.
Frammenti di vita ricordi di Bruno Sacerdoti pubblicazione a cura di Antonia Barone Como, Associazione Editrice Filò, 1997
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Francesco Costantino Memorie di un sovversivo
In otto quaderni manoscritti per un totale di 255 pagine, il bracciante Francesco Costantino, il "compagno amico di tutti i più deboli della società", ripercorre la sua vita di combattente e di lavoratore con una memoria prodigiosa nel ricordare nomi e persone di un passato anche lontano. Dall'esperienza esemplare del padre, socialista dei primi del Novecento, Costantino apprende una lezione di vita mai dimenticata e mai minimamente tradita, convinto com'è che in fondo cambiano aspetti anche fondamentali della vita associata, ma l'ingiustizia rimane la presenza più drammatica della convivenza umana. L'impegno dunque non va dimenticato, la guardia non va mai abbassata: fedele a questa convinzione profonda, Costantino vive e descrive la sua vita segnata dalla militanza politica. "Fin dall'infanzia fui additato come il figlio del sovversivo. Dall'insegnante di terza elementare, un bigotto fascista, fui a mia volta definito un sovversivo". Militante antifascista, Costantino subisce il carcere e le perquisizioni, la violenza vera e quella psicologica: ma l'isolamento con lui non funziona, dotato com'egli è di una immediata capacità di costruire relazioni e di organizzare gli altri. Così alla militanza clandestina del fascismo segue la dirigenza delle lotte del dopoguerra per il lavoro agricolo, per l'occupazione di tutti, anche delle braccianti, per lo zuccherificio.
Tutti questi momenti sono raccontati con un continuo e puntuale riferimento alle vicende della "grande" politica: tutta la storia del nostro secolo viene riletta e giudicata nelle pagine di Costantino, puntuale nell'informazione, preciso nei dettagli, sicuro nei giudizi. Fra tutti i dirigenti storici del movimento operaio l'ammirazione e l'affetto di Costantino vanno soprattutto a Giuseppe Di Vittorio, "pilastro essenziale della democrazia e dell'unità sindacale", punto di riferimento di tutti i lavoratori "del braccio e della mente", come, ricorda Costantino, amava sottolineare lo stesso Di Vittorio: "la ragione vera delle sue scelte era stare dalla parte dei poveri, dei deboli, di coloro che non avevano neppure voce per gridare la loro protesta". E questa immagine limpida di lotta intransigente per i disoccupati e i lavoratori senza pensione costituisce un altro pregio delle memorie di Costantino.
Il volume edito è evidentemente ridotto rispetto al manoscritto orginale che è consultabile integralmente presso la Fondazione Archivio diaristico. Il titolo è stato modificato per la pubblicazione.
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Eugenia Biondi L'amore di Eugenia
"Io sono nata il 18 luglio 1920 abbiamo subìto la miseria, la dittatura, l'analfabetismo, la guerra", poi c'è stata la "trasformazione di tutto", ma la strada percorsa è stata lastricata di dolore, di coraggio, di paura, perché "questa è la vita". Tutto questo si legge in Come eravamo, prezioso testo di memorie di Eugenia Biondi, scritto scritto come è pensato, in presa diretta, come succede nei ricordi quando tutto avviene al presente. Campagne romagnole: Eugenia, abituata a "fare i lavori più pesanti dell'agricoltura", è presto mandata a servizio come bambinaia o domestica in città (a Faenza e a Firenze), dove conosce nuova povertà - "un sottoscala senza finestra, un letto, un baule e tante pulci" - nuova umanità - la famiglia del "grande capo fascista" che la giovane Eugenia arriva a rimproverare perchè fa le corna alla moglie - un altro mondo, dove "c'erano la radio il telefono il bagno" ma anche i pregiudizi di classe: la figlia dei padroni non vuole essere accompagnata al cinema da una "stracciona", allora la "stracciona" cambia padroni, riesce a comprare vestiti e a essere corteggiata. Ma non cambia idea e resterà fedele al grande e unico amore della sua vita, Giovanni: "nasce l'uomo e nasce il destino, io amavo Giovanni perché era povero come me". Arriva la guerra: Eugenia è costretta a tornare a casa e a riprendere il lavoro di contadina, e siccome ha messo qualche soldo da parte sposa Giovanni. La loro è una povera casa colonica, dove "non c'erano vetri alle finestre", quando poi il padrone faceva i conti, imbrogliava i contadini. "Noi quando in ginocchio, con i pantaloni pieni di toppe e il cappello in mano, signor padrone, con il tetto pieno di buche e nell'aia la ciucca spelacchiata. Te stai zitto, perché sei ignorante, se reclamavi i tuoi diritti". Eugenia invece osa protestare, controlla i conti e riesca a far valere i diritti di tutti. Ma la guerra porta anche il terribile lutto della morte di una figlia: "Una notte è morta. Io ero sola me la sono stretta al petto, ho pianto urlato a chi mi sentiva. I cannoni sparavano". Poi le cose cambiano e dopo la guerra "il padrone non faceva più paura". Giovanni farà l'operaio e così sarà anche per i figli e il lavoro consentirà a tutti una vita dignitosa. "La casa l'abbiamo comprata e non mi manca niente. I figli mi vogliono bene, mi fanno dei regali, mi vengono a trovare, mi telefonano. Ma i figli non sono nostri, sono della società".
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Francesco Ibba Storie di antifascismo e di emigrazione
Finita la guerra, Ardauli, in provincia di Oristano, è un paese in cui soprusi e disperazione sono ferite ancora aperte, di cui ben pochi sembrano interessarsi. Francesco Ibba, giovane reduce, nutre rabbia verso quelle autorità comunali che vivono in una sorta di apatia e di indifferenza, verso una realtà di miseria e di impotenza. Così Francesco ed altri reduci decidono di non restare inattivi e creano la Sezione dei Combattenti e Reduci: "In mezzo a tanti pensieri e ai ricordi oscuri dei campi di battaglia… una fiammella di speranza doveva pur venire… Con i compagni ci incontravamo ogni sera e fino a tardi restavamo a discutere dei problemi che ci riguardavano". Con il sostegno dell'onorevole Emilio Lussu, Francesco e i compagni danno vita ad una sezione staccata del Partito Sardo d'Azione, con l'obiettivo di scuotere l'immobilità di Ardauli. L'autore inizia un periodo di forte impegno politico per far valere i diritti dei reduci e degli ex - combattenti delle due guerre, che culmina con una rivolta ordinata " La sommossa popolare doveva assumere i tratti di un movimento pacifico, di protesta civile e, dunque senza alcuna violenza " e con l'elezione a sindaco. Ma la lotta per rendere il proprio paese libero da amministratori senza scrupoli, lo rende il bersaglio preferito da parte degli esponenti del partito dell'Uomo Qualunque, retaggio del movimento fascista, che cercano in più occasioni di farlo accusare di illecito nell' amministrazione comunale. Le dimissioni dalla carica assunta a soli venticinque anni, giungono come un'ennesima affermazione dell'impossibilità di operare ad Ardauli: Francesco sceglie l'emigrazione in Francia e in Belgio, dove si distingue nel Sindacato Minatori. Rientra in Sardegna e l'impegno continua nel patronato ITAL e in quello INCA/CGIL: assunto come impiegato comunale, riprende la lotta per promuovere quello sviluppo che manca da anni ed è nel 1989 che il presidente del sindacato minatori, Lucien Charlier, gli conferisce la medaglia d'oro per meriti sindacali.
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Bruno Bartoli Un uomo fortunato
La mezzadria era "una delle peggiori forme di subordinazione e di sfruttamento", scrive Bruno Bartoli ricordando la situazione in cui viveva la sua famiglia: il mezzadro doveva solo eseguire; altrimenti era costretto a lasciare il podere senza giustificazione da parte del proprietario: " Bastava indicare ad esempio l'incompatibilità di carattere". "Quanti stenti e quante privazioni!": anche se la sua famiglia allevava quattro o cinque vitelli all'anno, "io non sapevo quale era il sapore della bistecca alla fiorentina"; e quando oggi nei ristoranti viene presentata come una prelibatezza la minestra i pane, "penso a quanto la odiavo da piccolo", perché "non sapeva di niente". A dodici anni Bartoli, come gli altri suoi coetanei, è costretto a lasciare gli studi e a impegnarsi nei "duri, faticosi" lavori dei campi nella campagna intorno a Empoli; a sedici anni, partiti i fratelli per la guerra (che portò solo altra fame e nuovi lutti, con la morte del fratello, i bombardamenti, gli sfollati), la fatica divenne quasi insostenibile, giacchè quasi tutto gravava sulle sue giovanissime spalle. La "ripulsa" per quella palese, intollerabile ingiustizia diventava sempre più grande, e si trasformerà poi in coscienza di classe. Non mancavano, però, anche momenti di serenità: la vita in famiglia, la trebbiatura, la vendemmia, gli approcci con le ragazze (chiamati " fiaschi", "forse perché quasi sempre le ragazze rifiutavano le nostre offerte") "ricordi che ancora oggi mi fanno venire nostalgia malgrado la miseria che avevamo". Resistere e reagire diventa un dovere, e alla fine la vittoria contro i fascisti e i loro alleati ricompensa le fatiche e le tragedie. Bisogna rifondare tutto, la società e la democrazia. L'"esigenza di grandi cambiamenti sociali" diventa il punto centrale degli anni successivi ce Bartoli vive come militante e dirigente (nella Federmezzadri, con cui combattè la grande e vittoriosa battaglia per la fine della mezzadria, nella Cgil, nella politica attiva , fino a diventare consigliere provinciale, e nello Spi) senza mai dimenticare pero' il rapporto di servizio con i contadini e gli operai, e al tempo stesso riuscendo a costruire una famiglia solida. "Ho sempre sostenuto ce ciò che il sindacato mi ha dato è stato più di quanto gli abbia restituito"; per questo appello conclusivo è ai giovani , il cui rischio maggiore è quello di "lasciar fare agli altri, non occuparsi di politica, non tutelare i propri interessi e quelli della collettività".
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Natalina Sozzi Il profumo dell'erba tagliata
"Se ti senti vittima degli ingranaggi implacabili del tuo destino, così come io lo fui un tempo tanto lontano ce quasi non ricordo più, questo libro è dedicato a te. "E se ti racconterò di me, di mia madre e un poco dei miei figli, mio paziente lettore, amico caro, in fondo racconterò di te. Perché se le storie sono diverse, la sofferenza è una sola". E' così che inizia la memoria di Natalina Sozzi (nata a Rivolta d'Adda) e già entriamo in un mondo di valori profondi perché vissuti: "La sofferenza è una sola". Dall'esperienza del dolore può nascere il sentimento della solidarietà; dalla vita di un individuo si possono trarre indicazioni per la vita di tutti: bisogna conoscere (leggere) e avere "pazienza", che significa proprio "soffrire insieme", condividere cioè la sofferenza per arrivare infine all'amicizia, cioè alla solidarietà. E tanta parte dell'esperienza di Natalina è fatta di sofferenza: dalla nascita, con l'immagine della madre che stava per partorire "sulla terra dell'uva e della fame", all'infanzia, segnata oltretutto da una profonda ingiustizia: la presenza ossessiva del fratello, che si fa quasi padrone della vita di Natalina, e che pretende di controllarne le scelte. Ma il commento che ne fa oggi la protagonista è davvero magnifico: Natalina "perdona" il fratello pur riconoscendone l'insopportabile invadenza, e lo capisce proprio perché, come dice, quella era la normale cultura di quel mondo contadino, fatto di fatica e di sofferenza, dove dunque amare era impossibile. Ma poi le cose cambiano e le trasformazioni avvenute nel tessuto civile dell'Italia sono particolarmente evidenti nel ruolo della donna, cui Natalina dedica grande attenzione: "Ai tempi di mia madre le donne erano schiave" (e dovevano lavorare, accudire la famiglia, fare figli). Natalina invece, almeno "da una certa età", ha riscattato questa vita di umiliazioni grazie a una "testardaggine" che l'ha esposta a reazioni anche violente, per diventare, come scrive, "padrona del mio corpo, e ance dei miei pensieri"; adesso per le figlie le cose vanno ancora meglio, percè naascono e rimangono libere, "non devono subire l'umiliazione di essere donne", e "nessuno può obbligarle a stare zitte".
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Enrichetta Lefevre Facciamo l'appello
Con un racconto sulla sua esperienza di maestra che insegna per trenta anni nelle scuole delle borgate romane, Enrichetta Lefevre è la vincitrice del concorso "Premio LiberEtà - per una vita di lavoro e di impegno sociale", promosso da LiberEtà, mensile del Sindacato pensionati italiani della Cgil. Il concorso è nato grazie alla collaborazione con l'Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, diretto da Saverio Tutino. L'opera di Enrichetta Lefevre, vincitrice del concorso, è una narrazione che procede sempre vivace e animata da un grande amore per i particolari e per le descrizioni dei caratteri e dell'umanità che c'è sempre dentro i bambini e le loro famiglie. Così si è espressa la giuria del concorso che ha assegnato il premio. L`autrice - si legge nelle motivazioni - racconta la sua lunga esperienza didattica svolta nelle borgate e nei quartieri popolari di Roma. Nella sua opera Lefevre mette bene in evidenza il ruolo importante che la scuola pubblica ha svolto e deve continuare a svolgere per l'esercizio del diritto di cittadinanza e di inclusione sociale. Ruolo che oggi, purtroppo, viene rimesso in discussione".
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Eliseo Ferrari A sangue freddo
Eliseo Ferrari, di Modena, è il vincitore della VII edizione del “Premio LiberEtà”. Le sue memorie hanno al centro i fatti avvenuti a Modena il 9 gennaio 1950 quando sei lavoratori che stavano manifestando pacificamente vennero uccisi dalla polizia. Siamo negli anni dello “scelbismo”, quando l’allora ministro degli Interni Mario Scelba, nominato nel 1947, decise una contrapposizione frontale tra Stato e manifestanti, che lasciò sul campo molti morti, tutti tra i manifestanti: da Melissa, nel cosentino (30 ottobre 1949, due morti) a Torremaggiore (29 novembre 1949, due morti) e Montescaglioso (14 dicembre 1949, un morto), entrambi in Puglia, per non dire della strage di Portella della Ginestra, nel palermitano, avvenuta il 1° maggio 1947, che denota oscure collusioni tra Stato, mafia e separatismo siciliano, e in cui morirono sedici persone. I sei operai uccisi a Modena il 9 gennaio del 1950 e i duecentottanta feriti di quella mattina, sono il culmine dell’azione esercitata dell’apparato repressivo predisposto da Scelba. L’episodio suscitò una grande impressione in tutto il paese. Palmiro Togliatti e Nilde Jotti adottarono uno degli orfani dei manifestanti uccisi, il figlio di Arturo Malagoli. Quel che colpisce di quell’episodio è che non si trattò di uno scontro tra forze dell’ordine e manifestanti, quanto piuttosto di un’esecuzione mirata. Scrive Eliseo Ferrari: «In fondo a via Ciro Menotti, all’incrocio con via Paolo Ferrari e via Montegrappa, uscendo da una porta dove si era riparato, Renzo Bersani attraversava la strada e piedi senza correre; un graduato s’inginocchiò sulla strada, lontano circa 150 metri, prese la mira e lo fucilò secco senza scampo di fronte a centinaia, migliaia di testimoni». E ancora: «Non fu uno scontro tra manifestanti e poliziotti come si tenta oggi di far credere, tentando di dividere al cinquanta per cento le responsabilità dell’eccidio». Del resto, i sentori che quella giornata sarebbe stata tragica si avevano già dai giorni precedenti. Eliseo Ferrari, a quell’epoca era segretario della Fiom di Modena, e dunque principale organizzatore dello sciopero generale e della manifestazione che portò all’eccidio. È proprio lui a raccontare che Enzo Ferrari, il celebre costruttore automobilistico, il giorno prima della strage aveva raccomandato ai manifestanti di fare molta attenzione, perché aveva saputo da ambienti di Confindustria che il rischio di spargimento di sangue era molto alto e che la polizia avrebbe usato le armi. Eliseo Ferrari entra in fonderia, come operaio, a quattordici anni, nel 1939, e in quell’ambiente matura la sua coscienza politica che lo porta a combattere nelle brigate partigiane durante la seconda guerra mondiale. Nel 1948, lascia la “produzione” e diventa funzionario sindacale. In questo ruolo segue la situazione delle Fonderie Valdevit e della Fonderie Riunite, le due realtà operaie più importanti della provincia. I numerosi lavoratori licenziati dalle Valdevit si organizzano nella “Cooperativa Fonditori” – a cui il solito Enzo Ferrari commissiona una serie di lavori che sono provvidenziali nei primi periodi di vita dell’impresa. Quanto alle Riunite è proprio per rispondere al licenziamento in massa dei 560 lavoratori occupati che si organizza la giornata di sciopero generale e la manifestazione del 9 gennaio 1950. Sempre seguite da vicino dal sindacato, perché danno lavoro alla più grande fetta della classe operaia modenese, le Riunite finiscono per essere poste in vendita nel 1966. Quel che si vende sono in realtà i debiti accumulati in quattro decenni di cattiva gestione. Li acquistano i lavoratori, riuniti in una nuova cooperativa. È proprio Eliseo Ferrari che compie il gesto simbolico dell’acquisto del 100 per cento delle azioni, pagando ai vecchi proprietari il prezzo simbolico di una lira: «Mi disse l’avvocato Grilenzoni: “Lei è il segretario provinciale della Fiom e rappresenta il 90 per cento dei lavoratori, consegno a lei le azioni delle Fonderie, ora sono loro i nuovi proprietari”. Presi commosso la busta, ben sapendo che erano debiti, ma che finalmente non c’erano più padroni gretti alle Fonderie Riunite, e una speranza di progresso si apriva per i lavoratori». La gestione della cooperativa, ci informa Ferrari nell’ultima parte del testo, è un successo; nel 1984 i soci si uniscono con quelli della “Cooperativa Fonditori” in una cooperativa unica. Ma restano memorabili le pagine intense e drammatiche dell’eccidio, quasi una memoria a cui dovrebbe essere obbligatorio ritornare per i politici del nostro presente. (Luca Ricci)
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Carla Maria Nironi La scuola delle farfalle
Quella raccontata da Carla Maria Nironi è un’esperienza singolare che ha valicato i confini di una città, di una regione, addirittura del paese, arrivando a diventare modello anche in altri paesi del mondo. Il suo scritto, che ha vinto il Premio LiberEtà 2005, è la storia di una crescita culturale complessiva, l’affresco di una civiltà della condivisione e dell’emancipazione, dell’impegno ma anche del divertimento. «Noi non avevamo l’aspetto di persone impegnate. C’eravamo travestite da farfalle, eravamo giovani, con le minigonne e gli scialli colorati di moda allora, ben diverse dalle donne che avevano conquistato le scuole nel dopoguerra. Eravamo la generazione che gli anziani chiamavano affettuosamente “gioventù bruciata”.Anche la situazione non era più quella dura della ricostruzione, della scarsità di tutto. Nonostante ciò avevamo ereditato la passione dalle nostre madri e, come loro, quando vedevamo la giustezza delle nostre idee, eravamo ostinate e tenaci. Volevamo un mondo migliore per i nostri figli, e la scuola di Malaguzzi lo rappresentava in pieno». Carla Maria Nironi traccia un quadro entusiasta con i ritratti di tutti i protagonisti che appaiono nella loro schietta umanità, nel loro impegno sociale, nella loro irresistibile simpatia. Intellettuali straordinari come Gianni Rodari o politici come il presidente Sandro Pertini. Su tutti però spicca il professor Malaguzzi, lo scienziato severo capace di ottenere il massimo da tutti, ma anche di mettersi a giocare con i bambini per ascoltarne i linguaggi e capirne la personalità, maestro ed esempio di umanità. «La storia della Villetta è una storia particolare - dice Carla - perché è stata una scintilla che ha acceso tanti fuochi in tanti posti. Prima di tutto nella provincia di Reggio,dove c’era già matura la situazione di richiesta degli asili da parte delle persone, generalmente le madri perché gli anni sessanta erano gli anni del boom economico, quindi andavano a lavorare e avevano bisogno di mettere questi bambini; ma c’era anche un’altra motivazione che era molto più profonda, cioè volevano per il loro bambini delle scuole degne di questo nome e non soltanto il deposito dei bambini. Questa lotta è partita da lì e poi è andata in Piemonte, Toscana, Lombardia. Loris Malaguzzi ne è stato l’ispiratore». (dal risvolto di copertina)
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Angelo Dall'Occo Odissea di vita vissuta
"In queste 250 pagine di vita vissuta vi è la più limpida, la più genuina, la più onesta e sacrosanta verità": e si tratta della verità di quegli 83 anni che vanno dal 1893 al 1975, gli anni della vita di Mario Dall'Occo, padre di Angelo (nato nel 1921) che compone la memoria. La fame, la fatica, l'ingiustizia sociale, le battaglie per migliorare le condizioni di vita di tutti, a Pontecchio nel Polesine, sono le costanti di queste due esistenze, quella del padre e quella del figlio. Le condizioni di vita vengono ricostruite con precisione: il lavoro nei campi sempre sottopagato, la violenza delle istituzioni (la prima guerra mondiale, il fascismo), la ricostruzione puntuale delle varie fasi del lavoro della canapa, al confronto del quale gli altri lavori nei campi "erano uno scherzo". E l'ingiustizia è tale che Angelo ricorda della giovinezza soprattutto l'odore del pane caldo, per lui costantemente proibito, e la tragedia del furto di 12 galline che gettò la famiglia in un'autentica prostrazione. Poi alle tragedie quotidiane della sopravvivenza si aggiunge quella spaventosa della seconda guerra mondiale, dei bombardamenti, delle rappresaglie nazifasciste, da cui Angelo scampa con la disperata e terribile soluzione di nascondersi in un cimitero. Dunque la scelta di aderire prima alla Resistenza e poi, a Liberazione avvenuta, ai partiti e al sindacato, che più garantivano la libertà e il riscatto dei lavoratori, diventa la logica conseguenza di questa esistenza-odissea che poi vedrà alti momenti di intensa drammaticità, come l'alluvione del Polesine (13-14 novembre 1951), la prospettiva dell'emigrazione, le difficoltà di trovare una sistemazione stabile, come il lavoro all'Alfa Romeo a Milano mentre la famiglia d'origine rimane a Pontecchio, le lotte operaie del 1968-69, che segnano "la grandiosa riscossa del movimento sindacale unitario". E quando un prete chiese al padre di Angelo ormai ottantenne quale pensasse che fosse il giusto destino dei ricchi, Mario rispose citando il trentatreesimo canto dell'Inferno di Dante: "La bocca sollevò dal fiero pasto".
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Antonio Specchio Detenuto politico 3048
Il bracciante Antonio Specchio racconta un periodo buio della nostra storia: la nascita del fascismo e la repressione di ogni libertà. Il lettore vi troverà una ricognizione puntuale delle condizioni di vita delle campagne pugliesi a partire dalla fine dell’Ottocento, quando la povertà disperata e oggi inimmaginabile era il carattere dominante della grandissima maggioranza degli uomini, i quali però reagivano a questo stato di disperazione con un’onestà e una dignità straordinarie. Ecco così le prime leghe dei contadini, le riunioni, le discussioni fatte da soggetti di grande moralità e coraggio. Specchio, socialista libertario, fu condannato per fatti mai commessi a 26 anni di carcere duro, e grazie ad amnistie del regime ne trascorrerà “solo” 12 nelle patrie galere.
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Cecilia Tratzi Diario di un'occupazione
Il diario racconta i dodici giorni del dic. 1968 in cui l’autrice, insieme ad altre ottantuno giovanissime operaie, occuparono la fabbrica di abbigliamento Ar-Co-Co di Elmas, per rivendicare il diritto alla retribuzione e al miglioramento delle condizioni di lavoro. Nella motivazione del Premio, è detto che “ il libro ricostruisce un momento di svolta della vicenda della protagonista e delle altre operaie coinvolte, che dall’episodio dell’occupazione acquistarono definitivamente una coscienza sindacale, fatta di impegno quotidiano, di coerenza e di solidarietà. Rappresenta inoltre un momento emblematico del più grande processo di emancipazione della donna e delle trasformazioni dei rapporti sindacali da una dimensione privatistica e familiare, fatta di ricatti e favori, a una dimensione costruita su valori condivisi e riconosciuti, e cioè su diritti e doveri reciproci”. E’ stato quasi per caso che Cecilia Tratzi ha ripreso in mano, e spedito al concorso, il diario di un’esperienza giovanile la cui ampiezza formativa oltrepassa la sfera del lavoro per diventare formazione sociale, politica, emotiva. Ci ha così restituito una testimonianza di prima mano di un episodio, e insieme di un’atmosfera, che ben esprimono i primi fermenti delle trasformazioni che hanno avuto inizio proprio in quegli anni. “Prima di arrivare a decidere l’occupazione,abbiamo dovuto lottare non poco con le nostre colleghe. Non tutte erano d’accordo nel corso dell’ultima riunione che si è tenuta con i dirigenti del nostro sindacato. Solo la metà di noi era favorevole. Alcune avevano espresso timore per le possibili conseguenze alla nostra ribellione, altre erano spaventate e preoccupate per il fatto che saremmo rimaste fuori di casa per chissà quanto tempo, altre ancora volevano certezze circa il risultato finale. E’ stato un momento di gioia, quando, una per una, abbiamo visto arrivare, con le favorevoli, anche le contrarie e coloro che, non iscritte al sindacato e refrattarie a ogni forma di lotta, si erano dichiarate libere di non partecipare.” E così, in un alternante crescendo di speranze e incertezze, di azioni e di attese, di gioie e di delusioni, trascorrono tredici faticosi giorni nei quali prendono forma nelle giovani protagoniste un cambiamento e una consapevolezza nuova: quella di poter incidere a tutti i livelli sulla propria realtà, come lavoratrici e come donne “nuove”, più sicure e assertive. Una bella storia di solidarietà e di crescita, raccontata giorno per giorno da Cecilia con sobria e tenera precisione giovanile, che ci fa riflettere sull’oggi. Per le evidenti differenze, certo, ma anche per il richiamo al valore della lotta per i propri diritti e la propria dignità. (Recensione di Maria Lucia Moica)
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Giovanni Mandato Storia di un metalmeccanico meridionale
Aversa, provincia di Caserta. Fine anni Cinquanta. Giovanni vive con la famiglia in un basso. Sua madre era «l’unica del vicolo che sapeva leggere e scrivere», suo padre, operaio alla Imam Aerfer di Napoli, muore all’improvviso e Giovanni, a soli quindici anni diventa operaio metalmeccanico con la qualifica di “scaldachiodi”, o’ scaurachiovo. Inizia qui la sua nuova vita di fatica e responsabilità familiari. Il ragazzo è costretto a crescere in fretta e a occuparsi anche dei diritti degli altri! Con gli occhi di Giovanni rivediamo la stagione entusiasmante tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, dei consigli di fabbrica, di un sindacato protagonista della vita politica. Poi, l’impegno contro il terrorismo, la mobilitazione per il rapimento di Aldo Moro. A un certo punto Giovanni decide di andare in pensione perché, dice, «era giunto il momento di svecchiare l'azienda, fare entrare nuove risorse umane, i giovani, dargli spazio».
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Anna Gironi E non venisse mai giorno!
«Finalment una mimìna!». Con questo grido nonno Aurelio accolse la notizia della nascita di Anna. Era il 26 luglio 1937. Dopo tanti maschietti una bambina ci voleva. Il papà Luigi, “papà pacifico”, era un tipo allegro, ottimista, rispettoso e leale verso il prossimo; la mamma Maria era schiva, seria, sempre in movimento. La loro era una grande casa rurale addossata alla collina dell’Appennino tosco-emiliano: «Giù in fondo, il paese di San Benedetto Val di Sambro». La storia di Anna si intreccia con quella della società italiana fra il 1937 e il 1956: la guerra, la ricostruzione, la democrazia, la trasformazione del contesto sociale, le battaglie civili, il nuovo ruolo della donna. Ecco la rievocazione divertita e affettuosa delle serate “a veglia”, in cui la comunità si riuniva nelle stalle riscaldate dal fiato degli animali, e si alternavano il lavoro dell’intrecciare la paglia, il canto, i racconti di storie di diavoli, assassini, maghi, mostri e orchi. «E non venisse mai giorno!» era l’esclamazione che nascondeva l’illusione che quel clima potesse prolungarsi, ma poi tutto si concludeva molto più semplicemente con solenni sbronze. Poi, Anna decide di andare in città, a lavorare. E sono anni duri: c’è il confronto con un’altra realtà e c’è un doloroso processo irreversibile di presa di coscienza. Ma pur nelle difficoltà, affronta la vita con coraggio e ottimismo.
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La giuria del Premio LiberEtà
Giuseppe Casadio (Presidente) Membri: Andrea Bajani Daniela Brighigni Gabriele Cioncolini Anna Maria Cutrufelli Marilena De Angelis Paolo Di Stefano Marta Fattori Angelo Ferracuti Cinzia Leone Giorgio Nardinocchi Bruno Ugolini
Si possono richiedere informazioni più dettagliate a
Liberetà
Via dei Frentani 4/a
00185 Roma
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