sabato 14 settembre ore 11.00 Logge del Grano
35 di noi
incontro con Melania G. Mazzucco segue incontro con Paolo Cognetti
Il corpo di Ettore Castiglioni, milanese di buona famiglia, alpinista tra i più forti degli anni Trenta, emerse nel giugno del ‘44 dalla neve che si scioglieva, nei pressi del passo del Forno che divide l’Italia dalla Svizzera. In marzo l’avevano fermato al di là del confine, non era la prima volta che succedeva, ormai lo conoscevano: uno strano tipo di partigiano solitario che dall’autunno faceva avanti e indietro per le montagne di frontiera, sfruttando le sue doti di alpinista per tenere i contatti tra la Resistenza italiana e gli antifascisti rifugiati in Svizzera, alcuni dei quali lui stesso aveva accompagnato di là. Dove era stato arrestato non c’era un carcere, così per evitare che scappasse gli avevano tolto la giacca, i calzoni e le scarpe e l’avevano chiuso in una stanza d’albergo. Castiglioni era scappato lo stesso: in marzo, di notte, sotto la nevicata, con una coperta sulle gambe e i ramponi legati agli stracci avvolti ai piedi, aveva risalito il ghiacciaio puntando un valico a tremila metri. Ce l’aveva perfino fatta. Al di qua del confine doveva essersi fermato a riposare, si era appoggiato contro un masso, aveva ceduto alla fatica e al sonno e non si era più sve- gliato. Era morto nel modo in cui desiderava: "LIBERTÀ. E così sia", aveva scritto nei suoi diari pochi mesi prima, come dettando un epitaffio. Chi era davvero Ettore Castiglioni si seppe solo mezzo secolo dopo, quando il nipote Saverio Tutino, partigiano lui stesso e poi giornalista, corrispondente per l’Unità dalla Cina e da Cuba, fondatore dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, trovò quei diari nei cassetti di casa e li portò a un editore. Sarebbero diventati “Il giorno delle Mésules”, [...] che personalmente considero il più bel libro d’alpinismo della mia biblioteca. Perché in queste pagine, come nella letteratura di genere non succede mai, la montagna si fonde a un’epoca e l’alpinista al cittadino, all’intellettuale, all’antifascista, infine al partigiano. Paolo Cognetti, "la Repubblica"
Nel 1992 sono entrata in una libreria e ho acquistato “Gnanca na busia”, il libro nato dal “Lenzuolo” di Clelia Marchi, conservato dall’Archivio dei diari. Lessi questa storia, scoprii l’iniziativa avviata da Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano e ne rimasi profondamente colpita. Ero sempre stata affascinata dalla memoria diretta degli anziani ai quali strappavo ricordi, frammenti di vita. L’idea che esistesse un luogo dove si leggessero le storie di vita degli altri mi è subito sembrata meravigliosa. Sono stata una lettrice di diari fin quando, alcuni anni dopo, sono stata chiamata a far parte della "Giuria Nazionale" del Premio Pieve. Sia come lettrice che come giurata mi è capitato quindi di leggere più di un centinaio di diari che sono custoditi a Pieve. Prese singolarmente queste storie sono come un’autobiografia fatta con la polaroid. Come un autoscatto, perché l’urgenza del momento impedisce la cura del dettaglio. Prese tutte insieme però compongono un mo- saico straordinario, ricchissimo, prezioso. Possono essere considerate l’autobiografia della nazione. Dentro Pieve c’è l’autoritratto dell’Italia e degli italiani. La caratteristica principale di tutte queste storie è che chi scrive dice "io". Sono narrate in prima persona, chi scrive è chi ha vissuto e chi scrive, scrive raccontando la propria vita. Chi legge invece ha il privilegio di rivivere la vita di tutte queste persone. Ha la possibilità di immedesimarsi nella vicenda di ognuno. Melania G. Mazzucco
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Il programma della 35^ edizione:
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