Francesca Dadde Mannu e Francesca Farina negli scritti di Pieve riescono a rappresentare due solitudini ugualmente forti ma contrapposte da storie culturali diverse. Al centro delle pagine scelte c'è la transumanza, vissuta come abbandono della casa, distacco dai figli che genera nella madre rabbia, dolore, preoccupazioni, risentimenti silenziosi nei confronti delle cognate. Dolore per l'accoglienza delle figlie che la vedevano estranea, nemica, e lei "si struggeva senza parlare". In Francesca l'assenza della madre è separazione, solitudine consapevole fin da bambina. Ha dodici anni quando scrive "ho un bisogno grandissimo di tenerezza, d'affetto... non ho mai accarezzato mio padre né lui ha mai accarezzato me". La scuola è l'unica fonte di gioia e le dispiace quando finisce. Continua a cercare amore anche negli anni dell'università e la solitudine si fa depressione.
Bettina Piccinelli
L'insensata sofferenza di lei si trasmetteva istantaneamente alla figlia, senza che alcuno, neppure essa stessa, se ne rendesse conto e neppure ne accennasse, così non essendoci, nella vita di lei, altro che dolore, null'altro che questo si trasferiva nella carne, nei sensi della bambina che invano cercava nello sguardo della Madre, nei suoi occhi velati dall'amarezza, da un'oscura colpa, sostegno e forza.
La scuola dunque fu lo scampo alle sofferenze della Madre e della figlia, poiché le sottraeva entrambe allo spettacolo quotidiano dello scempio dell'amore, parola inaudita in quella casa, in quella famiglia, quasi una bestemmia: la Madre era lontana, allora, quasi inesistente, né mai la bambina vi pensava, se non quando un componimento ve la obbligasse - e allora la vergogna la dominava, perché non osava dire nulla di lei, né mentire sui suoi sentimenti nei confronti di lei.
Francesca Farina, "L'isola dei morti"
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