Brani scelti
L'uomo volgeva la testa un po' all'indietro per controllare che la ragazzetta riuscisse a scendere il dirupo reso viscido dai muschi, dall'acqua e dalla levigatezza dei massi. Nei passaggi più rischiosi accennava a tenderle la mano per aiutarla ma l'adolescente faceva in modo di ignorare l'appiglio riuscendo ad evitare il contatto con movimenti imprevedibili – ritardando, anticipando – per dimostrare la propria abilità.
Questa è l'esatta sintesi dei rapporti che intercorsero tra mio padre Flavio e me. A fatica cerco di tesserne la memoria senza provare dolore. Inconsapevolmente ho riassunto il penoso labirinto della nostra convivenza descrivendo i gesti dell'uomo e della figlia che lo accompagna a pesca nella val Canobina: CONTROLLARE, SFIDARE, PORGERSI, RITRARSI. A diciotto anni ero convinta che mio padre volesse spezzarmi. Probabilmente intendeva difendermi – confusamente, oscuramente – dalla passione fiduciosa con cui mi avventuravo nel quotidiano col risultato di farla tracimare come un torrente in piena. I miei entusiasmi lo infastidivano per la banalità da neofita e le mie scoperte lo annoiavano per averle già disvelate; le mie amicizie lo preoccupavano perché non intuiva di esserne geloso e le svaporate provocazioni lo diminuivano al mio stesso livello: persino sull'abbigliamento rivelava un'intolleranza degna di altre cause. Arrivai ad augurare che mia madre Enrichetta si separasse da lui non osando pensare né figurarmi – a quell'epoca – di farlo io; mi ridussi ad infilare menzogne per fuggirne i controlli, a chiudermi in mutismi per evitare il dibattito e a ruminare ribellioni defedate.
Mia sorella Antonia telefonò per avvisare che Flavio si era aggravato. Arrivai all'ospedale e vidi nella siepe vicina all'ingresso del padiglione un merlo dal becco giallo: fosse la morte, vestita di penne luccicanti, che stava aspettando? Mio padre giaceva in un lettuccio dentro ad una stanza svuotata – gli altri degenti erano ciabattati via -: luminosa. Notai una lacrima immobile, come indecisa se scendere o restare. “Piange?” Qualcuno tenne a rassicurarmi; no, non piangeva: umori. Morì da solo, in quella stanzona, perché ero andata a telefonare a mia figlia Valentina e ad augusto; quando lo rividi, la lacrima era ancora al suo posto. Sbirciai dalla finestra verso la siepe: il merlo saltellava sul muretto di recinzione con innocenza. Pensai subito, con una pena trafitta che provo anche adesso, che mi aveva voluto così bene, da rendermi LIBERA da “se stesso” andandosene; quest'idea l'aveva immalinconito fino a piangerne: poco, però aveva pianto. Ero la causa di quella lacrima: figlia crudele di un re Lear dai lineamenti mediterranei, figlia distratta, indifferente e lontana. Naufragai nei sensi di colpa rendendomi conto quanto fossero inutili e tardivi e cominciai a cercare nei grumi della memoria i gesti affettuosi che ci avevano avvicinati trent'anni prima e cancellando via via quelli che, in seguito, ci avevano discostati. Col passare del tempo mi accorsi di aver costruito un infingimento fragile come un castello di carta perciò cominciai a scriverne a Claudio. In ogni lettera tentavo confusamente di analizzare sentimenti e risentimenti nella giusta misura e, in ogni risposta, Claudio mi dava appigli per procedere, nuovi sentieri da percorrere, bandoli da sdipanare: un'attenta partita di ping-pong. Attualmente vivo serenamente col ricordo del mio papà; in certi giorni di umore basso misuro il tempo perso e mi attorciglio malinconicamente sul reale significato di quella lacrima indecisa.
Il redattore C.T. fantasiò e scrisse e mi diede da illustrare delle filastrocche aventi per protagonisti una bambina pestifera ed un cagnone che l'aiutava ad uscire dai guai provocandone altri. Questa coppietta mi era insopportabile anche perché il redattore con malizia disarmata – quasi pudica – dava a capire di ispirarsi a quella che immaginava essere la mia vita a due. Il lavoro è lavoro e lo eseguivo (a nasotorto) ma altro che filastrocche! Le dimensioni della mia pancia erano ormai inequivocabili … Come ogni cucciolo che si rispetti, Valentina nacque durante un temporale primaverile e, come ogni mamma sprovveduta ed entusiasta, le promisi la stabilità degli affetti, l'innocenza delle risate, la presenza dei genitori e la compagnia di un fratello con cui dividere, da subito, l'infanzia, i passi, i giochi: sorte opposta a quella toccata a me e mia sorella. Era una bambina fortunata avendo a disposizione un affollamento che l'avrebbe osannata ad ogni farfuglio, rigurgito, sorriso, dente, tentativo; pur non avendo fatto in tempo a conoscere Lucia le restava una bisnonna: Gigì col suo cane Fufi e le candide galline ovaiole nella casa di cipria. Quattro nonni. Due zii giovanissimi. Una triszia, Giovannina Clotilde, nel paese di pietre e beole e due genitori ancora stupefatti di esserlo diventati. Non avendo avuto da mia madre – quindi appreso – smancerie bamboleggiamenti e bacetti, ma ricordavo – per averlo adorato – un gesto di Flavio (identico a quello delle pastore della val Canobina): mettersi il figlio a cavalluccio sulle spalle per traversare torrenti, prati, dirupi. Spavalda e fidente inforcavo il lieve peso di Valentina sul collo, le manucce aggrappate al mio viso e la sua risata come ordine alla sosta o al trotto: piazze, vie, mezza città, - potevamo fare il giro del mondo – con meta d'obbligo la buca della sabbia nel parco dove la bambina potesse giocare con i coetanei. A quel punto aprivo il vassoietto delle paste e cannoli, bignè, sfogliatine e tartellette riempivano le lunghe ore coi loro sapori tiepidi: peccato di gola cui non sapevo dare nome e “perché” – in effetti disdegnavo i dolciumi -, pacificata dai vaghissimi sensi di colpa e arcicontenta che Valentina preferisse una mela, galleggiavo nella beatitudine.
Mentre faccio la domanda vorrei subito rimangiarla, non ho scampo; è uscita: “Valentina, cosa ricordi della separazione dei genitori e di quello che avvenne?” L'uscita del papà dalla casa non l'identifico ma l'entrata …”fu contemporanea…” - della tata si: mi portava alla pasticceria d'angolo, prendevamo cappuccini e brioches, ce ne stavamo sedute al tavolino della sala da tè come due signore di mezza età. …”rimosso il dolore, conservato il cappuccino…” Ricordo una enorme scatola di Lego … “Valentino Bompiani l'aveva comperata per te durante una lunga camminata di confidenze appenate e di conforti…” e che mi facevi sbattere le uova per la frittata ma non intuii … “meno male” … gli anatemi che ti fioccarono da tutti i nonni; comprensibili i suoceri ma Enrichetta e Flavio, i tuoi genitori … … “già, furono durissimi; per non parlare dell' "Orti Studio" che fece quadrato intorno a N. …” … mi piaceva avere due case, due camerette, doppi giochi, doppi itinerari, doppi amici. … “e all'asilo, a scuola?…” Finché andai al Montessori tutto filò liscio ma alle elementari ero l'unica, in classe, ad avere genitori separati, i compagni mi scherzavano; regalavo matite, gessetti quasi per ingraziarmeli. Poi, alla fine della settimana, quando andavo dal papà mi consolavo con Lorenza: lei era molto evoluta. Insieme, quando avevamo 8 anni, leggemmo e rileggemmo l'inserto dell' "Espresso" sulla sessualità, ricordi? – … “ricordo, ricordo …” Poi mi portavi al parco e vuotavi nella buca della sabbia la sporta piena di pellerossa di plastica e ci giocavo coi bambini per interi pomeriggi … … “la borsa, al ritorno, era più leggera: te ne rubavano sempre e tu non protestavi mai …” Avevo capito di essere in una condizione dove è meglio perdere qualcosa per tesaurizzare ciò che resta, in quel caso la compagnia, forse un po' interessata ma pur sempre compagnia, dei coetanei. Mamma, da voi mi sono sentita amata e, quel che conta, ascoltata: mi dedicavate ATTENZIONE. Non ho ricordacci; per me è stato diverso e più difficile che per altri? Chissà …
Mia figlia liquida con poche parole quel vissuto: chi ha avuto, ha avuto … chi ha dato, ha dato … scurdammoce 'o passato, simme 'e Napule! Paisà … Ognuno di noi nel confrontarsi con gli altri, cerca di dare una “rappresentazione” di sé che lo gratifichi: per piacere e per piacersi. Valentina ha scelta l'immagine serena perché preferibile a quella problematica e, forse, anche per non ferirmi. Me la comunica e ci crede: probabilmente pensa di essere stata davvero una bambina felice dove altri non sarebbero riusciti ad esserlo. Oppure, sapendo di non esserlo stata, vuole dare di sé un'immagine vincente. Non ricorda o non vuole ricordare ciò che ha “veramente” provato? O è ancora troppo presto perché riesca a farlo affiorare? C'è dell'altro? Le ripeterò la domanda. La risposta potrà essere del tutto diversa da quella odierna e rivoluzionare la “rappresentazione” che anch'io do di me stessa: simme 'e Napule! Paisà, … che diamine!
Uscivo di casa con una sorta di felicità selvaggia; mi girava la testa per la sensazione di libertà smisurata a disposizione; non avere più frottole da opporre a Flavio per ogni minimo ritardo, né discussioni per pareri diversi, né linee di bistro da cancellare, scarpette da nascondere mi faceva percorrere, in falcate leggere, una strada incantevole dove i fiorai offrivano violette e mughetti. Uscivo di casa e me ne andavo a raggiungere N. e gli altri in qualche trattoria della via degli Orti o a consegnare il lavoro in casa editrice Bompiani o per una convocazione al “Corriere dei Piccoli” che aveva cambiato sede, direttore e redattori. Vi trovavo Mario Uggeri e i suoi cavalli impennati, Leone Cimpellin annodato al telefono, Aldo di Gennaro sempre più bravo, Jris de Paoli così ruvida e poetica, Giorgio de Gasperi e – appena rientrato dall'Argentina – Hugo Pratt che, con consumato istrionismo, ci narrava mille avventure (vere o false, che importanza aveva?). Vi trovai anche Augusto. Non Augusto vero e proprio in carne ed ossa: il “racconto” di Augusto. Volta per volta il redattore capo, con aneddoti saporiti e spiritosi, ricordando fatti e persone e luoghi e lavori di tempi precedenti, prese a descrivere un geniale pubblicitario emigrante in Toscana. Da alcune precisazioni potei abbinare l'uomo di cui si parlava con la pagina a colori – ritagliata con cura da una rivista – che da ragazza avevo appesa sopra al tavolo da disegno. La fotografia ritraeva un quarantenne vestito con l'eleganza sciolta e vissuta dei terrieri inglesi (assolutamente non usuale in quei tempi ingessati), nella mano un bicchiere, al fianco un setoso bassotto adorante, ombre e luci riverberate da un grande camino, mobili d'epoca e, ben visibile, una bottiglia di vermouth Cinzano. Quell'uomo sconosciuto col suo cane rappresentava un certo ideale che mi ero favoleggiata e me ne ero un po' innamorata: il suo sguardo malinconico era stato decisivo. Mi guardai bene dal riferire al redattore capo della pubblicità ritagliata anni prima e di quella cotta assurda: temevo i lazzi dell'intera redazione e dei colleghi disegnatori. Adesso, quella pagina è di nuovo appesa e Augusto sta prendendo un po' di sole, qui di fuori, nel prato della casa color cipria: il golfone smollato, il cane vicino, lo sguardo malinconico oltre i verdi stillanti degli alberi dopo la pioggia.
Arrivò il “Sessantotto”; Giovanni Arpino mi mandò una cartolina da Parigi: “Il est defendu de defendre”. Il movimento mi trovò e mi lasciò quasi indifferente: avevo trent'anni e problemi terragni da affrontare e da risolvere. Il 7 dicembre vidi volare qualche uovo in piazza della Scala: Milano ebbe un brivido e continuò ad averne durante le prime manifestazioni. La poesia di Pier Paolo Pasolini, dedicata ai giovani poliziotti, rafforzò le poche idee che via via stavo elaborando. Quando il 14 dicembre dell'anno dopo deflagrò la bomba in piazza Fontana cominciai a capire nebulosamente che una parte dello stato era in guerra con l'altra parte di stato, che si volevano colpire i lavoratori e destabilizzare la nazione. Seguirono notizie vermicolose, processi, altre provocazioni; le formazioni estremistiche ebbero il loro da fare: i disordini e le sassaiole innescavano cariche e lanci di candelotti lacrimogeni. Ci furono morti tra i militanti delle fazioni opposte e gli appartenenti alle forze dell'ordine; i funerali che ne conseguivano erano ulteriori micce. Milano era presidiata ma le dimostrazioni operaie ebbero momenti di sincera aggregazione e le bandiere rosse riferimento protettivo: nessuno poteva immaginare che quelli fossero i prodromi di tutto il peggio di là da venire. Lasciai il “Corriere dei Piccoli” per collaborare alle pubblicazioni di “Selezione del Reader's Digest”: tre libri di cucina con grandi tavole per la cui esecuzione trovai una tecnica lieve, mai usata per raffigurare verdure, quarti di carne, minestre e stoviglie. Questo lavoro mi aprì la porta per accedere ad un ambiente sino ad allora mai esplorato: la pubblicità. Iniziai la nuova esperienza. Non avendo più alle spalle, come supporto, una casa editrice, dovetti imparare a fatturare, a programmare e a scegliere. Mi iscrissi all'albo degli artigiani per garantirmi pensione e assistenza mutualistica e cominciai a far visionare il mio book dalle agenzie pubblicitarie; Claudio mi aiutò fornendo nomi e indirizzi: buon viaggio! In una ovattata e supermoquettata agenzia americana, venni messa davanti ad un uscio aperto. All'interno, il dirigente che doveva spiegarmi il lavoro da eseguire, stava al telefono dandomi le spalle. Quando la telefonata ebbe termine, feci un passo e varcai la soglia e, nello stesso momento, l'uomo si voltò: era proprio Augusto.
Marialuisa Gioia "Offendicula" autobiografia 1946-1999
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