Brani scelti
Per Françoise, spiritualità significava soprattutto un modo di vivere spontaneo, non si affidava a strutture ma riponeva la sua fiducia nella vita. Procedeva, in un certo senso, a occhi chiusi affidandosi al caso più che al calcolo. Era finita in Italia per caso, in seguito ad un annuncio in cui diceva di cercare una casa sui Pirenei e a cui aveva risposto il proprietario della casa in cui poi siamo vissuti, in Val d'Aosta. Mi aveva detto: "Quando ci siamo arrivati la prima volta non sapevo neanche che fosse in Italia". (…) Rifiutava la razionalità come negazione della spiritualità, amava l'erba alta, i giardini dove le aiuole non hanno limiti precisi, uscire dal sentiero durante le passeggiate, anche a costo di infilarsi in una macchia di rovi. Il corpo, il suo corpo era il punto di contatto più intenso e diretto con lo spirito. Gioia significava percepire la natura, i suoi odori, i suoi cambiamenti. Quando passeggiavamo la forza del suo corpo era una cosa sola con l'aria che lo accarezzava, il suo sguardo si scioglieva sui prati, nei boschi, nel cielo. La sua unione con l'ambiente era tangibile. Attraverso la danza esprimeva tutto questo, con una capacità molto particolare ed in un modo del tutto spontaneo. Nei primi tempi della nostra vita in comune ballava spesso, senza musica e senza scopo, ballava per amore. Durante un viaggio, ci fermammo non lontano da Livorno, lungo la costa, in un punto dove le rocce hanno forme sinuose, con molte incavature. Françoise improvvisò una danza adattando il suo corpo alla forma delle rocce, una specie di dance-contact con la terra. Le onde del mare si abbattevano sugli scogli spumeggiando ritmicamente, non c'era un filo di erba né un granello di sabbia, ma solo quella nuda tondeggiante pietra ed il cielo. La pietra, il cielo e il mare erano il ritmo e la melodia della sua danza, il suo corpo lo strumento per cui quella musica poteva esistere.
Quella fu la prima giornata della nostra vita con il cancro. Per qualche giorno ebbi la sensazione di non riuscire più ad alzare lo sguardo da terra. Oppressi, abbattuti, peso, buio…Non più discorsi, scelte, reazioni, ma un oscuro silenzio. Cancro. Malattia. Sofferenza. Paura. Racconti di sofferenze registrati nella memoria. Non sapere niente di niente. Solitudine. Scoprimmo che avere un cancro vuole dire essere l'unico che può scegliere cosa fare in quella situazione, e che la scelta si basa sull'ignoranza, sul sentito dire. Qualsiasi medico o chirurgo onesto può solo dire: "Ci sono delle buone probabilità, ma non certezze" (…) Nessuna certezza - probabilità. Che senso ha sapere che ho il 60% di probabilità di sopravvivenza. Dopo tre o quattro giorni ritrovai la forza di alzare lo sguardo al cielo. Scoprii che eravamo in piena estate, che la vita continuava, come sempre. Françoise aveva ormai deciso di sottoporsi al digiuno secondo il metodo di Breuss, come proposto da Gabriella, e pensammo che era importante che lo potesse fare in un posto dove avesse la possibilità di dedicarsi tranquillamente a se stessa. (…) Degli amici le offrirono la possibilità di utilizzare la loro casa, non lontana dall'abitazione di Gabriella. Françoise vi si trasferì dopo qualche giorno, nel frattempo aveva gradualmente ridotto la sua alimentazione, aumentando in percentuale il consumo di verdure crude. Io avevo procurato una scorta di succhi di barbabietola e di verdure biologici che dovevano diventare l'unico alimento per lei nelle settimane seguenti. Stabilimmo anche che lo stato della malattia sarebbe stato seguito da un ginecologo, il dott. S. La durata totale del digiuno avrebbe dovuto essere dai 21 a 42 giorni, a seconda degli sviluppi. Per Françoise, il successo era certo. Diceva: "Quando avrò finito questo digiuno, non solo sarò guarita, ma avrò un corpo rimesso a nuovo, pulito e perfettamente funzionante."
La sua chiusura su qualsiasi tentativo di intrusione nelle sue scelte non era certamente diminuita. Io evitavo in genere di toccare l'argomento, limitandomi ad osservarla nella sua determinazione che mi appariva completamente irrazionale, e ne assecondavo le richieste. Sembrava infatti che né io né nessun altro avesse il potere di scalfire la sua ferrea decisione di curarsi in casa scegliendo da sé le terapie da seguire. Ogni volta che avevo toccato l'argomento, cercando di mettere in luce il pericolo che correva e la necessità di contrastare con più forza la malattia, mi ero scontrato contro un muro di nervosismo capace di mettere fine ad ogni discorso. A quel punto avevo rinunciato a quei tentativi e cercavo piuttosto una strada adatta a mantenere la pace tra di noi.
La resa di Françoise entrando in ospedale aveva modificato radicalmente alcuni aspetti della situazione. Lasciando cadere tutto lo sforzo per resistere da sola contro la malattia, aveva ritrovato la dolcezza del suo carattere, l'interesse per i bambini, per dialogare con me in un modo più aperto e rilassato, senza più centrare tutto sul suo disturbo. Ritrovammo finalmente il piacere ed il calore dell'essere insieme, che erano stati travolti dalla durezza degli eventi degli ultimi mesi, il piacere di tenersi per mano. (…) Durante le settantadue ore di irradiazione non riuscì quasi a dormire, nonostante i tranquillanti, gli analgesici, gli antibiotici e tutti gli altri farmaci che le somministrarono. (…) Quando finalmente uscì era dolorante e sfinita… Nei giorni seguenti decise di dormire fuori casa, all'aperto, per smaltire più rapidamente le radiazioni. Scelse un posto un po' lontano da casa, sotto una quercia. Per lei era importante questo dormire all'aperto. Non solo per le radiazioni, ma anche perché era come un simbolo della sua libertà e di un passato ormai lontano, un passato di viaggi, di accampamenti accanto ad un fuoco, di antichi amori. Quel passato era stato spesso oggetto del suo rimpianto, quante volte me ne aveva parlato, del deserto con i tuareg, della Nuova Zelanda, con Phil, un ragazzo mahori di cui era stata molto innamorata e con cui aveva fatto un lungo viaggio a cavallo delle spiagge di quel paese. Quello spazio che aveva scelto per dormire tra le ginestre, sotto i larghi rami della quercia, la relativa lontananza dalla casa, simboleggiava ciò che dentro di lei era la bellezza, la libertà, la gioia, la vita. Ora, oppressa dal dolore (…) ancora più intensamente, dormire all'aperto, in modo quasi lacerante, era il simbolo della libertà e al tempo stesso dell'impossibilità di viverla.
Françoise aveva recuperato in parte le sue energie, ma incominciava a soffrire di dolori molto forti nella zona sacrale, al punto che faticava a sedersi (…). Progettò in quel periodo due viaggi (….). Il secondo era una visita agli sciamani nelle foreste dell'Ecuador con il proposito di trovare una strada verso la guarigione, ma anche, sicuramente, di seguire il proprio profondo desiderio di conoscere quelle persone e la loro cultura, da cui era sempre stata attratta. (…) Quando fu sull'aereo che da Roma, facendo scalo a Madrid, l'avrebbe portata a Quito, scrisse: (…)"Danzo nello spazio, mi tuffo attraverso le nuvole, mi muovo tranquilla, armoniosa, senza fretta (…) Sento come una sensazione spontanea che mi spinge visibilmente fuori da me stessa. Come una preparazione a qualche cosa che non conosco. Sento la necessità di una estrema apertura, di un sottile ascolto, d'una grande concentrazione. (…) Un destino che oggi mi spinge nel cielo verso una destinazione sconosciuta e che ciononostante mi attende. Mi è offerta l'incredibile possibilità di aprirmi; devo restare sveglia, non addormentarmi in una trance d'abitudine. Ascoltare. Concentrare."
Già la mattina, prima del suo arrivo, avvertii stranamente una forte sensazione di libertà, di contatto con gli elementi e potenzialità di movimento. Non so se avesse qualcosa a che vedere con il suo ritorno ma fu una sensazione chiara e intensa, non certo comune in quel periodo. Dal primo momento del suo arrivo ne ricavai l'impressione di una nuova disponibilità al dialogo, alla semplice comunicazione. Nonostante la stanchezza ed i disturbi di cui soffriva, il suo volto era disteso ed aveva acquistato una bellezza rinnovata, la luminosità di una dolcezza che sembrava ormai essere stata persa in un lontano passato. Mi parve di ritrovare una persona che non incontravo più da anni, forse quella parte di lei misteriosa e segreta, quella luce a cui mi ero unito anni prima. Ci sedemmo sul prato davanti casa. Quel prato è circondato dalle colline circostanti, essendo posto su di un'altura che sorge al centro di una valle, i cui versanti sono però un po' più alti. Era il tardo pomeriggio e la luce penetrante del giorno lasciava spazio ai tono più morbidi nel fogliame dei boschi. "Mi sembra di aver trovato qualcosa che ho cercato per tutta la vita senza riuscire veramente a capire cosa fosse" disse. "Queste colline …hanno la stessa forza, la stessa intensità di linguaggio delle montagne dell'Ecuador. Mi sento profondamente unita a loro, ed essendo unita a loro sento di essere unita agli sciamani. Stando con loro si sente di appartenere alla terra, di essere una cosa sola con quelle montagne. Non è perché te lo dicono. Non cercano neanche di essere puri: fumano, bevono, …non cercano niente di speciale, non cercano di essere nulla, né di impressionarti in nessun modo. Sono talmente semplici! E' gente così semplice! Sanno sorridere! Lavorano, ma hanno un ritmo tranquillo, si vede che sanno fermarsi, trovare il tempo per fare festa, per stare insieme. Mentre ero da Don Esteban c'era una festa di matrimonio vicino a casa sua. Stavano ballando da tre giorni, sempre con la stessa musica, che non finiva mai, sai, quella musica delle Ande. Sanno godere di quello che hanno, guardarti negli occhi, rispettare la terra. Cose che qui sembra non esistano più, qui si vive per lavorare, per avere denaro, sempre di più e non si sa più godere di niente." (…) Parlava con dolcezza e calore comunicandomi quel suo sentimento di unione con la terra più con la qualità dell'energia che emanava da lei che con le sue parole. Ero stupito e felice di quel cambiamento, mi chiesi, incredulo, se non avesse trovato la strada della guarigione, ma in fondo non ci credevo, credevo solo all'evidenza dei sintomi, ai suoi dolori e sanguinamenti. Mi chiesi quale fosse la guarigione che stava cercando in realtà, se era quella del corpo oppure quella dell'anima.
In quel periodo i miei pensieri rincorrevano molto spesso il desiderio che ci fosse una fine rapida a tutta quella difficoltà e la fine era, nella mia immaginazione, la fine della sua vita. Non che lo desiderassi veramente, ma quella parte di me che desiderava sfuggire costruiva continuamente l'immagine della sua fine come porta possibile per accedere nuovamente ad una vita dove il piacere avesse la sua parte. Questo aspetto di me lasciava spazio, a volte, ad una comprensione più obiettiva ed equilibrata. Vedevo allora come proprio quella volontà di fuga fosse la negazione della libertà: mi conduceva infatti ad una condizione di conflitto interiore tra quello che vivevo e facevo e quello che pensavo. Mi era chiaro allora che la libertà consisteva proprio in quell'atto di essere veramente presenti, non frantumati, cioè capire intimamente la situazione, il suo stato d'animo, non limitandosi a preoccuparmi per me stesso. Mi stupiva quanto egoismo ci fosse dentro di me, con quanta forza il mio punto di vista mi coinvolgesse e condizionasse, facendomi perdere il senso della realtà. Mi sentivo talmente sciocco ed in contraddizione con me stesso da temere che non sarei riuscito ad uscirne, che sarei rimasto in quella prigione.
Le prospettive di cura si erano in pratica annullate. A parte l'intervento chirurgico, di cui si stava valutando ancora una vaga possibilità di esecuzione presso un chirurgo francese, le altre terapie, quella del Professor Di Bella e quella della medicina cinese, avevano ormai dimostrato di non arginare l'avanzata del male nel suo corpo.
"Ho preso una decisione Santi. Voglio morire. Basta. Non ci credo più, non sento più l'energia. Cioè, credo sempre che sia possibile guarire, ma sono io che non ci credo più. Sono stanca, ho un dolore tremendo, ho perso altro sangue, dentro sono tutta gonfia, il catetere mi fa male, non riesco più a muovermi. Voglio andare al mare. Voglio morire guardando il mare. Lascio tutto, la casa, i bambini." Era l'una del mattino. Ero rimasto con lei quella sera: la sentivo così fragile! Forse fece quelle affermazioni sopraffatta dallo sconforto del momento. Ma sentii che il desiderio di andare al mare era autentico ed urgente. Il giorno seguente preparai tutto quello che ci poteva servire per passare qualche giorno in un campeggio sul mare: tenda, farmaci, cibi, pentole.. il mattino successivo eravamo in viaggio in direzione della costa toscana. Le sue difficoltà di movimento erano aumentate al punto da renderle impossibile chinarsi, le dovevo infilare calze, scarpe e pantaloni, camminava con difficoltà, il più delle volte appoggiandosi al mio braccio. Alcuni giorni era talmente stanca e debole da riuscire a malapena ad uscire dal letto, altre volte si alzava alcune ore per poi coricarsi nuovamente, nel pomeriggio, presa dal freddo e dalla febbre. Il giorno del viaggio sembrava stare particolarmente bene. Si godette il paesaggio della campagna toscana mentre percorrevamo la strada sinuosa tra le colline coltivate a grano, orzo, viti ed i recenti impianti di alberi da legname.
Realizzai che il mio desiderio, come ogni desiderio, era una fuga dal presente, cercare nell'immaginazione una comoda, quanto inutile, via d'uscita. E' questo il dualismo, il conflitto. Vivo nel presente, vi sono evidentemente costretto, ma avrei voluto sfuggirgli perché in quel presente ero soggetto a tutte le condizioni che lo componevano: le mie responsabilità, le conseguenze di ciò che avevo costruito in passato, le relazioni che vivevo così come le avevo costruite o avevo contribuito a farlo, l'assenza del piacere fisico, i disturbi più o meno grandi che facevano parte della mia vita quotidiana. Ma quello era il mio presente! Solo lì potevo vedere le conseguenze del mio passato e costruire quello che sarebbe stato il futuro. Il presente è il crogiuolo in cui tutto avviene. Perché non dedicargli tutta l'attenzione? Vivere nel tempo significa non dedicare tutta l'attenzione al presente, passare tutta la vita rincorrendo un futuro che non corrisponde mai all'immagine che ce ne siamo fatti. Il desiderio impedisce alla realtà di esprimersi nella sua piena potenzialità. Opponiamo, attraverso la nostra immaginazione, una continua resistenza a quello che ci si presenta perché non corrisponde alle nostre aspettative. Scrissi: "Noi riconosciamo solo quello che immaginiamo e desideriamo, solo quello che possiamo immaginare. Le nostre immagini sono prodotte non solo dall'esperienza passata conservata nella memoria, ma anche dalla cultura, dall'ambiente e probabilmente ci vengono trasmesse anche per via genetica. Così non siamo mai pronti a cogliere quello che stiamo vivendo perché non lo vediamo, non riusciamo a vederlo perché non è l'immagine che vorremmo vedere. Il nostro sforzo continuo di adeguare il presente, ciò che è, alla nostra immagine di ciò che dovrebbe essere, produce frustazione, dolore, confusione. Non riusciamo mai a cogliere la perfezione di ciò che è, e a viverla con piena tranquillità e fiducia. non siamo capaci a stare fermi, a osservare, a cercare di capire. Anche quando ci capita di vivere un momento di vera tranquillità, non sappiamo dargli tutto il valore reale che possiede, non ne vediamo il potere. Scivoliamo, come se fosse inevitabile, scontato, nel flusso dell'agire, desiderare, immaginare, volere.
Il vero pericolo era morire sovrastati, sopraffatti, vinti dalla paura, dal rifiuto, dall'attaccamento alla vita. Il pericolo era non essere aperti a quel misterioso evento chiamato morte, entrarci trascinati dalla forza dei fatti, senza libertà. Mi apparve come un pericolo reale, si trattava di una questione essenziale non certamente di una differenza secondaria. Non c'erano più motivi dietro a quel sentire, ne ragionamenti. La morte è finire, non avevo nessuna idea di cosa fosse e di cosa ci potesse essere dopo. Sentivo solo la tremenda importanza che essa giungesse accettata, che la paura fosse sconfitta. Per questo guardando il suo volto tremante pensai che potevo aiutarla parlandole della morte, aiutandola a vedere quello che già sapeva ma continuava a nascondere a se stessa.
Fino a quel momento non l'avevo fatto perché ritenevo che sarebbe stata una violenza inutile, cercare di costringerla a fare un passo che lei non era pronta a fare. Ma allora le parole vennero, spontanee e con dolcezza: - “Andiamo a Roma se vuoi. Però ti vorrei dire che secondo me l'ansia che ti prende la sera, il senso di soffocamento, il panico che qualche volta vivi ha un motivo e che in questo momento questo aspetto della situazione mi sembra quello su cui si dovrebbe lavorare, soprattutto su questo.” -“Che vuoi dire? Non ho più energie per lavorare, che cosa dovrei fare?” mi guardava interrogativaed allarmata. -“No, non voglio farti lavorare, lo sai…non è una qestione di esercizi o di visualizzazioni…io credo che si tratta solo di vedere le cose come sono in realtà e di accettare, tutto lì…” Ti vorrei dire che è molto probabile che il tuo corpo sia vicino alla fine, non perché tu lo vuoi o lo scegli, come hai detto qualche volta, ma perché non ce la fai più, non riesce più a funzionare. Penso che è per evitare di vedere questo che soffri di ansia, che ti lasci sommergere dalla paura. Ti dico questo perché vorrei veramente che tu fossi libera…che tu fossi libera…” Le mie parole riempiavano il silenzio che si era creato tra noi, uno spazio che ci avvolgeva. I suoi occhi erano pieni di lacrime, pianse. -“ Imiei bambini!…” disse “ Non potrò più vedere i miei bambini!…” pianse silenziosamente per qualche momento, poi aggiunse: “So che con te staranno bene, sei così forte…” -"Abbiamo diviso la nascita dalla morte, tutto quello che consideriamo bello e gioiso da quello che vediamo brutto e triste, non ci chiediamo mai dove eravamo prima di nascere. Ma tutto fa parte dello stesso mistero, quando pensiamo alla nascita questa non ci spaventa, eppure dall'altra parte di quella porta c'è il vuoto, il mistero… Nella nascita c'è la morte, nel piacere c'è il dolore e la vita è tutto questo… Al di là della nostra volontà c'è un disegno a cui non possiamo sottrarci, che è oltre ogni scelta… possiamo solo aver fiducia che come qui c'è bellezza, in questo cielo, in questi fiori, in questo profumo dell'aria, e come qui possiamo accogliere questa bellezza, così sia in ogni aspetto della vita ed in ogni momento. Avere paura della morte, vederla come qualcosa di oscuro e spaventoso è solo un punto di vista, non ha nessun fondamento. La morte è un mistero, niente ci può far pensare che sia peggio di quello che stiamo vivendo. E' difficile lasciare tutte le cose e le persone per cui abbiamo lavorato, che abbiamo avuto vicino, che abbiamo visto crescere…ma opporre resistenza a quello che è inevitabile crea solo confusione, paura… Forse ci possiamo lasciare andare, nel bene e nel male, rilassarci…"
"Ho paura di morire.." mi disse. Aveva seguito le mie parole con quanta attenzione era riuscita a trovare ed era giunta al limite delle sue possibilità. Ma il tono con cui pronunciò quelle parole non era più quello dell'angoscia ma piuttosto quello di chi sta costatando un fatto. Quella sera quando la salutai per la notte, vedendo la luminosità del suo volto, mi venne da dire: "Ciao bella". La baciai, lei sorrise. E c'era pace.
Santi Borgni "Illusioni e libertà" memorie 1984-1998
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