Giuseppe Vizzinoni Stampa E-mail

Brani scelti

vizzinoni01 Anche quel mattino piovoso che volevo solo dormire, bussarono alla mia porta, Giacomo il mio ex datore di lavoro mi chiese l'ultima cortesia: andare a controllare per lui il carico e il peso di Olive a Pieve di Teco. Sono 70 km e piove a dirotto, gli chiesi con quale mezzo sarei potuto andare, Giacomo mi disse: "prendi la moto di mio zio, che è nella stalla, purché tu arrivi per le tredici, se non avessi avuto un altro impegno, ci sarei andato io, ma non so come fare". Gli risposi che non doveva preoccuparsi, perché sarei stato puntuale all'appuntamento. "Controlla il peso e fatti consegnare la bolla, riportamela con comodo."
Tranquillo come è venuto, avvolto nel suo manto che lo riparava dalla pioggia, così sparì. Guardai l'orologio a muro, segnava le 8, preparai un'abbondante colazione, mentre fuori la pioggia scendeva trasversale sospinta dal vento. Erano le 9, il vento sembrava avere ragione sulle nuvole, pioveva ancora, ma tutto lasciava pensare che avrebbe smesso. Indossai un impermeabile, corsi nella stalla, per non spaventare le mucche portai fuori la moto a mano, l'avevo portata altre volte, (la conosco). Essendo in discesa pensai di avviarla in corsa. Cinquanta metri di semi rettilineo, inserivo la seconda lasciando la frizione, il motore parte con un'accelerata, davanti a me, un tornante, un colpo di freno, ma niente, un altro, ma il pedale sta già a fondo, tiro la leva del freno anteriore ma non risponde, poi più nulla.
Allora avevo 19 anni, quando mi risvegliai ne avevo 20 compiuti. Un grande camerone, con tanti letti, non ne capivo il significato, su di me un peso che comprimeva il corpo, cercavo con i muscoli di liberarmi del tutto, ma sentivo solo dolore. "Stai fermo" mi dicevano mentre cambiavo flaconi di vetro, collegati ad un ago infilato nel mio braccio. Cercavo una reazione, non trovavo le gambe, volevo alzarmi, tentai di sedermi con l'aiuto delle sole braccia, provai solo dolore. Mi sistemarono in posizione arcuata, fasciata fino al collo, con qualcosa che chiamavo calcinaccio. Come fosse la cosa più normale mi dissero: "Che era solo gesso e dovevo stare fermo, altrimenti le vertebre non si sarebbero saldate. Ero stato operato alla schiena e ci sarebbe voluto del tempo, se mi fossi mosso rischiavo di non camminare più". Solo nei giorni avvenire capii ciò che ero diventato. Il mio corpo era pieno di piaghe da decubito, dai talloni alle spalle, ma ciò che mi faceva male era quando da solo, cercavo le gambe, che non avvertivo più, pur sentendone il dolore, non è un dolore normale, ma nessuno sa spiegarmi il perché. Mi convinsi che fin quando sentirò il dolore, c'è la speranza che rincamminerò e tornerò ad ascoltare il suono dell'Ave Maria, che il campanile scandiva ogni sera per dire a tutti: "La giornata è finita, andate a riposare". Mentalmente scandisco la musica dei dieci dischi, steccati e cigolanti per dare alle mie gambe il senso di movimento, era solo un'illusione,mi ostinavo a crederci. Nel 1965, avevo ventiquattro anni, non avevo più il gesso, ma ero pieno di garze e cerotti, sopra una barella venivo portato davanti una porta finestra da infermieri che di me si sono impietositi, perché potessi rivedere la luce del sole. Avevo poca visuale, ma tante illusioni prima e delusioni poi, sapevo che il mondo là fuori, non era più il mio. Per vedere la luce mi dovevano prestare gli occhiali da sole. A tutti nascondevo la mia rabbia, con fantasia oppressa da sorrisi forzati. Sapevo mentire ma non volevo arrendermi. Nessuno capiva la profonda lotta tra me e il mondo, una sfida impari. Ogni mattina la stessa speranza, ogni sera l'amara realtà paraplegia flacide, pieno di decubiti, dolori senza rimedi, spesso mi chiedevo perché il destino voleva tutto questo da me.

Millenovecentoottantacinque Con A. e la station wagon, faccio la circumnavigazione dell'Italia: Roma, Salerno, Reggio Calabria, Taranto, Lecce, Ascoli Piceno, Venezia, Trento Innsbruck, Austria, Lago Costanza Germania Lichtenstein, Zurigo, Milano, Torino, Val Susa, Francia, Modane, Lione, Marsiglia, Montecarlo, San Remo, Roma. Tre mesi all'arrembaggio, abbiamo dormito e fatto all'amore in macchina, sull'erba e negli alberghi, è stato un sogno che ci ha appagati nella realtà. Ma anche ora che siamo tornati, vedo raramente figlie e nipoti, A. dice che devono andare a scuola hanno da fare coi loro problemi. F. non abita più dalla suocera, e penso, ma non lo dico, che i soldi guadagnati da A. con la lavanderia sono finiti nell'arredamento della sua nuova casa. Per questo ha trascurato tratte e le forniture. Quel che non capisco perché me l'ha nascosto. Non gli ho mai negato niente nelle mie possibilità, ma forse voleva fare una cosa che fosse solo sua, è un suo diritto, quindi non deve spiegarmi niente. La mia bocca è sempre un po' storta, non mi crea però problemi, l'occhio mi da la sensazione che rimanga un po'chiuso. A. mi dice che è una mia impressione, ma non mi importa, poteva essere peggio, accompagnandola a fare la spesa, incontriamo un tizio con un cucciolo in braccio, lo offre a tutti implorando "se non lo prendete sarà ucciso con altri sette fratelli. Questa poi ha ancora gli occhi chiusi. Ha tre giorni di vita, la mamma ne ha fatti sedici, non ce la fa a nutrirli, per favore prendeteli, ve la regalo, per favore salvatela", si ripete implorando. Sulle mie gambe si vede solo due orecchie già dritte, e quattro zamponi. È un pastore tedesco puro,insiste, sempre con disperazione il tizio. Ogni cucciolo è un coinvolgimento, e A. lo accarezza. Dentro di me penso come già va nutrito. Guardo A. e dico come si può distruggere la vita. A. guarda me e dice: "Non ho mai avuto cani, non saprei come fare" "Ora che non faccio più sport avrò qualcosa da fare, si ci penso io, ma vivrà anche con te,perciò devi essere anche tu a volerlo". "Volerla -dice A.- è femmina, certo che la voglio, se la devono uccidere. A proposito, lo sai che sta arrivando il quarto nipotino, così sia F. che G. hanno un maschio e una femmina per ognuno. Sei contento?" "No, non lo sono perché quando non c'erano venivano tutti i giorni da noi, ora che ci sono io vengono qualche volta. Non mi piace e sono arrabbiato con loro". "È vero, si sono staccate un po'. Perché io stavo in negozio tu non c'eri, ma ora torneranno, vedrai". Il fatto che non posso andare io da loro, perché le loro case sono ai piani alti, senza ascensori, mi sento già punito. Lo devono capire, se non vengono loro io non li vivo. Non posso accontentarmi di sapere le loro cose solo per sentito dire. "Ti dico che hanno da fare, due bambini sono un grosso impegno, devono portarli all'asilo, andarli a prendere, bisogna cucinare, pulire e fare tante altre cose. Devono organizzarsi anche con i mariti che lavorano, ma vedrai che come possono non te li leverai più dai piedi". Infatti fu così, non c'era più giorno che quattro bambini con i loro schiamazzi e dispetti abitavano la mia casa, e la mia cucciola cresce con loro, la chiamano Pizza. Per facilitarli gli dico Nizza, e questo nome rimane suo per sempre.

vizzinoni I miei pensieri volano a ritroso. Quanta miseria per due ragazzi usciti dalle macerie della guerra, eppure riuscivamo anche a sorridere. Ma siamo davvero fratelli o siamo due che sono usciti dalla confusione della guerra chiamandosi fratelli, io ero piccolo e non ricordo, e forse lui non abbastanza grande per dimenticare. Questo solo Dio lo sa. Forse non ci riconosceremo, trentadue anni sono tanti, ma se sei il Valentino di allora e comunque pensi di me, ti voglio bene come allora, anche se entrambi portiamo i segni degli anni, forse tu sarai regolarmente sposato, avrai dei figli legittimi, col nostro sangue e cognome, comunque ci siamo ritrovati, questo è quello che conta, non ci perderemo mai più. Sono le sedici quando ci viene comunicato che per motivi di reparto, oggi non ci sono concesse visite, che i malati sono stazionari, di ritornare domani. Tutti borbottano e se ne vanno, io rimango lì senza nozioni o pensieri, ci vuole più di un attimo per chiedermi adesso cosa faccio, come un automa spingo la carrozzina lungo il corridoio che mi porta all'ascensore che va al piano bar, il caffè mi dà un attimo di istinto di sopravvivenza, ne ordino altri quattro da portare via, con un pezzo di focaccia. Uscendo fuori capisco di avere sbagliato ingresso, sono entrato con la macchina in quello che al momento definisco un'altra borgata, che ora dovrò percorrere all'inverso, penso che ciò che prima era sali e scendi, ora è scendi e sali. Mi consolo così, non ho neppure tanti soldi da permettermi oltre il viaggio anche un albergo, ma non avrei la forza di constatare se le loro porte sono accessibili per una carrozzina, così sbrago il sedile della macchina pensando che in quel parcheggio non disturbo nessuno e riposarmi così. L'orologio della macchina segna le diciotto, si sono accorciati i giorni, lentamente avanza la notte, si accendono i lampioni, la tramontana smuove i rami che si intrappongono tra loro e la mia macchina, dando ombre spettrali. Cerco di mangiare la focaccia, il mio stomaco la rifiuta, anche il freddo caffè mi disgusta, mi assale la tristezza. Ricordo tutta la fatica e miseria vissuta per trovarmi al punto della strada che lasciai a caro prezzo tanti anni fa, e come allora solo. Alzarmi presto non mi costa niente, perché non ho dormito e sento il bisogno di muovermi da quel rattrappito torpore; è dall'altro ieri che non mangio, e due notti che non dormo. Quando apre il bar, ho già subito la fredda tramontana del mattino e sono il primo cliente. Pensando che un altro giorno si prospetti di attesa e di ansie, mi propongo di fare una buona colazione. Ma passa poco tempo che tutto mi rigurgita. Se non fosse che leggo WC sopra a una porta del lungo corridoio, mi sarei vomitato addosso o per terra, alle otto sono in sala di attesa, non c'è anima viva, la porta che comunica col reparto è chiusa a chiave, non ho altra scelta che aspettare che qualcuno la apra. Quando arrivano i primi visitatori chiedo a che ora fanno entrare. "Se ha il permesso, alle undici, altrimenti alle sedici. Comunque non più di cinque minuti". Perfetto mi dico, sperando che non sia così, per non dare fastidio mi rimetto nello stesso angolo di ieri, e mi chiedo ancora perché Anna non è vicina a me. Finalmente qualcuno mi chiede cosa faccio lì e perché. "Sono il fratello di Vizzinoni Valentino è da ieri mattina che sono qui per vederlo, l'unica persona che ho visto non mi ha fatto neppure dire buongiorno, mi ha spiegato però lo statuto del San Martino" "Purtroppo ieri è stata una giornataccia, ci sono morti due pazienti, non potevamo fare entrare nessuno" "Lei però deve andare all'ufficio assistenza, hanno bisogno di parlare con un parente di Vizzinoni. Aspetti che le do un foglio che deve consegnarlo, in più gli telefono,così non la fanno aspettare, guarda caso, questo ufficio sta alla portineria che ero entrato ieri. Vorrei prendermela col mondo, ma poi dico:questo è il mio destino, devo accettarlo per forza così." Mentre rifaccio quei sali e scendi, per non caricare e scaricare la carrozzina dalla macchina, penso a tutto ciò che posso e devo chiedere su mio fratello, come entro e pronuncio il mio nome, mi stanno aspettando. "Ci può dare le generalità e il grado di parentela" "Vizzinoni Giuseppe e sono il fratello" "I suoi genitori come si chiamano, sono ancora in vita" "Questa è l'unica domanda che non volevo, perché non so rispondere".

Entrato in casa che già emana odore di chiuso, apro le finestre, ma i miei occhi trovano la barriera del palazzo frontale, il mio viaggio sa di sogno di ricordo già lontano nel tempo. Provo rabbia e nostalgia, vorrei ripartire, ma ho bisogno di lavarmi e riposo. Noto con piacere che la casa è come l'ho lasciata, il mio letto è disfatto. Pazienza, non dovrò dire grazie a nessuno e per nessuno provo più affetto, se fossi rimasto a casa sarei stato più solo che su quei monti. Mi chiedo se lo merito e dove ho sbagliato, se l'ho fatto perché punirmi senza dirmi la colpa. Nella cassetta della posta che non sono uso guardare, ma essendo solo che devo farlo, trovo il mio assegno INAIL che ormai da anni è di proprietà di A., mentre io verso e uso quello dell'INPS alla posta, mi stupisco trovare anche una tratta indirizzata a me. A. l'ha firmata a mio nome, vorrei capire ma non solo, non posso neanche arrabbiarmi, la rimetto nella cassetta, tenendomi l'assegno. Se A. da anni porta ai commercianti che mi conoscono e hanno il mio consenso per cambiarlo, l'ha fatto quando sono andato a Trento, poteva averne bisogno e io non c'ero, ma che firmasse anche le tratte col mio nome, lo scopro adesso. Quale bisogno aveva, ha la fiducia di tutti i commercianti, inoltre poteva dirlo, non gli ho mai negato nulla, non gli dirò niente, voglio vedere dove arriva la sua onestà, ma come è brutto scoprire le cose così. Metto l'assegno sul comò, ormai coperto di polvere e cerco di non pensarci, non ho contato i giorni della partenza di A., i quindici stabiliti mi sembrano scaduti, vorrei solo la certezza che non torna più, per organizzare le cose che agevolano la mia solitudine, ma so che ciò non accadrà, e prima o poi il telefono squillerà, mi chiederà di andarla a prendere a Civitavecchia al suo posto non tornerei più, ma io non sono A. e A. non è me. Si starà già studiando le bugie per giustificare le figlie che non sono venute neanche a farmi il letto, toglierà lei la polvere sui mobili, intanto sul mio comodino la tolgo io. Sono stanco, ma prima di riposarmi faccio un bagno e cambio il letto. Prima di addormentarmi penso ai miei fratelli, di loro sono il più piccolo, forse di me non ne hanno o sentito mai parlare, gli eventi e gli stenti li hanno fatti dimenticare, farli rivangare nelle loro offuscate menti i lontani ricordi, può essere per loro un trauma di cui potrei solo piangere con loro senza potere aiutarli. Perché sono io che ho bisogno di aiuto, che come loro non posso chiederlo a nessuno. Meglio lasciare le cose come stanno, sperare che sia giusto così, anche Nizza fiuta tutta la casa, vorrebbe fare le feste a A., e forse anche ai bambini anche se da tempo non li vede, sono certo che non li ha dimenticati. "Hai ragione cucciola, questa casa anche se riscaldata, è più fredda e sola di quei monti, che ispiravano nel loro gelo la luce e libertà". Dormiamoci sopra e non pensiamoci più.

Giuseppe Vizzinoni
"Un giorno piovoso"
autobiografia 1960-2003

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